Oggi nelle società occidentali i fondamenti della democrazia sono messi a rischio, di fronte a nuovi autoritarismi, a poteri che fanno a meno della partecipazione, al ritorno dei nazionalismi e ai fondamentalismi che nella versione immanente sono culto delle leadership, della Nazione assolutizzata come una divinità, di un popolo predicato come unico, che esclude chi non ne fa parte. Nella solitudine crescono le paure, le ansie. Quelle individuali che prendono la forma delle sofferenze e dei disturbi mentali tra le ragazze e i ragazzi; quelle collettive che diventano indifferenza, apatia o richiesta di un potere verticalizzato, guardiano di esistenze recintate, blindate nei loro confini, in un orizzonte privo di apertura.

La fiducia non è un atto solitario. La fiducia è inclusiva, è riparazione, ricostruzione, rigenerazione, risurrezione. La fiducia è il primato della relazione con l’altro. «È una nuova umanità che vuole farsi, è il moto irresistibile della storia», diceva Aldo Moro nel 1968. […] La nuova umanità non è un’ideologia, non è un’utopia, è sempre un travaglio, un «già e non ancora» che è il cammino dell’uomo, la risposta a una chiamata, a una promessa, nelle viscere della storia. È, prima di tutto, un incontro, il volto di una persona che ti attraversa la strada. Per don Mattia è il volto di Samy, che sta morendo dopo le torture delle milizie libiche, ha il corpo massacrato e chiede una benedizione con una video-chiamata a un prete sconosciuto, lontano. «Oltre alla benedizione, mi sono sentito di dirgli solo una parola: “Scusa”. Sì, perché io sono cittadino italiano ed europeo, sono cittadino di quell’Italia e di quell’Unione europea che finanziando la cosiddetta Guardia costiera libica hanno causato la sofferenza immane inferta a Samy», scrive don Mattia. In una seconda videochiamata dalla Libia i volti si moltiplicano, diventano «una selva umana, una folla immensa di persone migranti riunite a Tripoli, davanti al Community Day Center di UNHCR Libya. Era l’inizio dell’esperienza di Refugees in Libya, il primo movimento sociale dei migranti in Libia. Ci chiedevano aiuto nella loro lotta».

La solitudine diventa moltitudine. Non una massa indistinta, ma un popolo in cui ognuno arriva con la sua vicenda, le fragilità, le debolezze, la possibilità di riscatto e di lotta. «Le ferite dell’umanità sofferente, le nostre ferite, la nostra carne», dice papa Francesco. E prosegue: «Qualcosa di molto diverso dalla teorizzazione astratta o dall’indignazione elegante. Questa emozione fatta azione comunitaria non si comprende unicamente con la ragione: ha un “più” di senso che solo la gente capisce e che dà la propria particolare mistica ai veri movimenti popolari».

C’è un verbo greco che don Mattia Ferrari ama citare, quello che racchiude tutto il senso del suo servizio cristiano e umano: splagchnìzomai. Indica le viscere della madre che si stringono, si contorcono di fronte al proprio bambino, l’amore viscerale. Nella Scrittura si usa riferito al Padre e a Gesù; solo una volta a una persona – nel Vangelo di Luca –, riferito al buon samaritano. Una parabola ascoltata mille volte, neutralizzata nella devozione, logorata nel suo significato che, invece, è rivoluzionario. Il samaritano soccorre il ferito, mentre gli altri passano indifferenti, e i più indifferenti sono i religiosi. Lo fa perché sente nelle viscere qualcosa che lo invade, un fuoco che lo consuma, come l’amore e il desiderio di reagire all’ingiustizia. Lo fa senza educazione religiosa, senza conoscere Gesù, al pari dei giusti del capitolo 25 del Vangelo di Matteo: «Ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito…». Nessuno di loro l’ha fatto perché ha riconosciuto Gesù, ma perché spinti dall’umanità, dalle viscere che si avvolgono e non ti lasciano in pace.

Ho conosciuto donne e uomini che non sono rimasti indifferenti. Alcuni di loro sono amici di don Mattia, come don Matteo Zuppi, don Paolo Lojudice, don Luigi Ciotti. Altri sono venuti prima, come don Luigi Di Liegro, il direttore della Caritas di Roma, che aprì una casa per i malati di AIDS quando erano gli appestati che non voleva nessuno, e che per primo studiò l’immigrazione già quarant’anni fa, soccorrendo insieme al suo amico Dino Frisullo i dannati della Terra rifugiati a migliaia in un ex pastificio alla periferia di Roma. Aggiungo Michela Murgia, scomparsa troppo presto, che nei suoi scritti postumi rivendica il suo modo di essere cristiana, sensibile a ogni ingiustizia, violenza sulle donne, nelle discriminazioni e nei tentativi di limitare i diritti delle persone LGBTQIA+.

C’è un filo che intreccia storie e generazioni, perché laicamente la nostra Costituzione parla nel suo articolo più bello e programmatico, l’art. 3, di ostacoli da rimuovere, e ogni generazione avrà il suo contro cui lottare; e perché cristianamente il popolo è sempre in esodo verso la liberazione. Dalla schiavitù, dall’oppressione, ma anche dagli idoli, dai vitelli d’oro che separano le persone stordendole in un miraggio di salvezza individuale.

Non ci si salva da soli, non si fa comunità e chiesa da soli. Ritrovo in queste pagine l’insegnamento migliore di papa Francesco sulla fraternità, che condizionerà i prossimi decenni della chiesa. Non c’è chiesa senza storia: è l’incarnazione di Gesù tra le donne e gli uomini il tratto distintivo dei cristiani, assieme all’attesa della risurrezione, ovvero la certezza che non tutto si gioca qui, non tutto finisce con la vittoria dei più forti e dei più grandi, che la pietra del sepolcro deve rotolare ogni giorno via dal nostro cuore.

Nella storia, tra mille contraddizioni e tradimenti del vangelo, la chiesa si è lasciata convertire dai poveri, dagli esclusi, dai samaritani emarginati e disprezzati, stava con i borghesi ed è stata salvata dai proletari e dagli operai. «Essere liberi, avere in mano sacramenti, Camera (dei deputati), Senato, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutta questa dovizia di mezzi e di uomini raccogliere il bel fatto di essere derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti. Avere la chiesa vuota, vedersela vuotare ogni giorno di più, saper che presto sarà finita con la fede dei poveri», scriveva don Lorenzo Milani in Esperienze pastorali settant’anni fa. Era l’Italia dei giorni dell’onnipotenza del mondo cattolico, pre-conciliare; il cattolicesimo sembrava trionfante e invece aveva perso la freschezza, la gioventù del mondo.

ANSA

Oggi le chiese sono vuote, è finita la fede dei ricchi che deridono il vangelo e non hanno più bisogno di un’appartenenza sociologica alla chiesa. Se considero questo libro di don Mattia Ferrari come le sue «esperienze pastorali», le esperienze pastorali del XXI secolo deduco che il messaggio di Gesù è altrove, è nel mar Mediterraneo, culla delle tre grandi religioni monoteistiche, oggi è l’hotspot in cui sono evidenti gli effetti del cambiamento climatico; quello che vorrebbero trasformare in una fortezza, presidiata da milizie collegate con i governi. È a bordo di una piccola barca, com’è quella di Mediterranea Saving Humans, odiata dalle mafie libiche, ostacolata dalle autorità italiane, impegnata a «passare all’altra riva», come indica di fare Gesù nel Vangelo di Marco, nonostante le onde, la tempesta, la paura di affondare, e nella condivisione di tutto questo. È nelle periferie geografiche ed esistenziali; e nel rapporto con i movimenti popolari; è nello Spin Time, in un palazzo del quartiere Esquilino in un angolo di Roma, dove vive una comunità di diversi e di uguali, è nel sorriso contagioso di sorella Adriana Domenici, che vive quotidianamente la fede ogni giorno nell’accoglienza; è sulla spiaggia di Cutro, dove all’alba di una domenica d’inverno del 2023, una nave naufragò, morirono oltre cento, tra cui tantissimi bambini, morti di indifferenza, di mancanza di soccorso, di patti scellerati sulla loro pelle.

Serviranno forme inedite, creative, di presenza nella società, di partecipazione democratica, di evangelizzazione: accompagnare, non paternalizzare – come indica papa Francesco –, offrire amicizia, mai imporre dottrine o controllo. È una ricerca appena all’inizio; dovrebbe essere uno dei temi del Giubileo, che segna una tappa di questo viaggio che attraversa il primo quarto di secolo del nuovo millennio.

È nella speranza che si muove oggi la nuova umanità: il vangelo, la persona di Gesù, di cui don Mattia Ferrari è innamorato, con lo spirito del profeta Isaia: «Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?».

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