- «Sto correggendo le bozze di Nessuno veda nessuno. Sono emozionata. È il mio ultimo libro, credo...» Così, sorprendentemente, Biancamaria Frabotta aveva detto a marzo al suo ex allievo alla Sapienza di Roma Carmelo Princiotta, diventato ormai un amico, studioso di letteratura contemporanea.
- Il tema del vedere o non vedere, essere visti o meno è il filo conduttore di questo libro.
- Lo sguardo si sdoppia in quello dei vivi sui morti e dei morti sui vivi, anzi si moltiplica comprendendo animali e piante, tutti sottoposti agli occhi invisibili di un dio che non protegge e anzi forse si prepara a sferrare il colpo.
«Sto correggendo le bozze di Nessuno veda nessuno. Sono emozionata. È il mio ultimo libro, credo...» Così, sorprendentemente, Biancamaria Frabotta aveva detto a marzo al suo ex allievo alla Sapienza di Roma Carmelo Princiotta, diventato ormai un amico, studioso di letteratura contemporanea. Ci interroghiamo adesso, io e lui al telefono, su quella strana preveggenza.
Carmelo le aveva risposto motteggiando: «Ma che ultimo, Bianca! Ne scriverai altri senz’altro!» E ci interroghiamo sul titolo misterioso e su tanti testi contenuti nel volume, in uscita oggi nello Specchio Mondadori, che ci appaiono altrettanto presaghi e perciò inquietanti. Biancamaria Frabotta è morta, per le conseguenze di una caduta, il 2 maggio scorso. Era nata a Roma l’11 giugno del 1946. Aveva settantasei anni.
Era uscita spensieratamente con il marito, il Brunello di tanti suoi versi, a fare una passeggiata, ma è malauguratamente inciampata in una radice rompendosi una gamba. «La sua ultima passeggiata cominciò / in un giorno come un altro…» scrive in una poesia, la penultima della nuova raccolta. Si riferisce a Jane Austen, che morì nel suo letto abitata da tali dolori alle ossa che non avrebbe potuto andarsene a spasso.
Nella poesia, invece, Frabotta immagina che Austen si perda, passeggiando per l’ultima volta, nella sua miopia e in una notte imminente: «…non si accorse che si era fatto tardi/ e s’incupiva il tempo in una notte precoce».
Inciampi
Sono poesie, fra l’altro, piene di inciampi. Intesi come parola. («Basta un inciampo e si cade/ nel costante agguato secolare») e di morte. Morte di alberi amati, distrutti da un incendio, morte di amiche chiamate per nome (Rossana Rossanda), di sorelle, di sconosciuti: «Nulla come il tempo ha bisogno del tempo» riflette nei versi dedicati all’ombra di una enigmatica ottuagenaria, «vedo diminuire la distanza che intercorre fra me e lei».
Il tema del vedere o non vedere, essere visti o meno è il filo conduttore di questo libro. Non a caso Frabotta vi cita una frase di Austen pescata in Emma che dice così: «Una mente vivace e tranquilla può soddisfarsi anche senza vedere nulla e non vede nulla che non le vada».
E adesso, facendo un bilancio dei nostri quarant’anni di amicizia, mi viene in mente che era riuscita nella vita in questo esercizio che potremmo definire zen: non dare importanza (non vedere appunto) il fastidio causato dalla realtà, dal famoso inferno che sono gli altri per dirla con Sartre. E infatti descrive così i pensieri sbandati dei poeti: «…l’occhio/ che sa vedere il mondo e quello che/ vedere non vuole non vede». È profondo lo sguardo dei poeti, osserva il mondo attraverso l’interiorità, e può fare a meno di ciò che per altri è necessario. Ha bisogno di solitudine, ma non di isolamento. Per questo in quel titolo impositivo, Nessuno veda nessuno, che riecheggia le regole della chiusura dovuta al Covid, c’è tutta la preoccupazione di un’artista che ben conosce la differenza fra le parole: la solitudine è una scelta e porta a una scoperta, a vedere di più. L’isolamento è imposto, è perdita e cecità.
Poeti
Ma «la debole vista» è una colpa per il poeta e d’altra parte vedere senza essere visti è un sopruso. «A me pareva andando fare oltraggio/ veggendo altrui, non essendo veduto» medita Dante fra gli invidiosi cui è stata imposta per punizione la cucitura delle palpebre. Al sommo poeta si rivolge Frabotta recriminando su «la nostra cecità senza visione» come stato della poesia contemporanea.
E qui è presente un altro aspetto del suo scrivere: lo spirito saggistico e d’intervento, la riflessione costante sullo “stato delle cose”, senza perdere di vista la centralità in sé stessa. Che cos’è Quartetto per masse e voce sola (Donzelli 2009) se non un’autobiografia attraverso le proprie passioni letterarie?
E ora ripenso alla socievolezza di Biancamaria, a quanto era aperta agli amici la sua casa romana di via Pistoia e quella di Cupi in Toscana, a quanti artisti e scrittori e poeti ho conosciuto o incontrato da lei.
Toti Scialoja che ci declamava «Il sogno segreto/ dei corvi di Orvieto/ è mettere a morte/ i corvi di Orte», mentre Valentino Zeichen, alto e bello, s’informava sul menù della serata. E Milo De Angelis che s’innamorava della futura moglie, Giovanna Sicari, poetessa anche lei, scomparsa troppo presto, e la fotografa Paola Agosti, e Vivian Lamarque, e Valerio Magrelli, e Maurizio Cucchi e Elio Pecora e Roberto Deidier…
Ma questo è accaduto dopo, negli anni, quando nella vita di Bianca era entrato appunto Brunello, Brunello Tirozzi, un fisico con la passione della musica, poi poeta anche lui (chi va con lo zoppo…).
Brunello al piano
E in quelle serate a un certo punto Brunello si metteva al piano, e le nostre chiacchiere e le nostre bevute avevano uno straordinario accompagnamento jazz. Anche il loro matrimonio tardivo, avvenuto il 29 maggio 1993, dopo lunga collaudata convivenza, si è trasformato in evento letterario. Gli amici poeti, convocati in Maremma alla festa di nozze, le celebrarono componendo versi raccolti poi in un prezioso libretto che ricevemmo a mo’ di bomboniera, dal titolo Un sabato al Paglieto… «Evviva Bianca, viva Brunello/ l’eco ripete fino a Orbetello…» cantò in una deliziosa lunga poesia Elio Pecora. Perché Biancamaria era così: riusciva a trasformare in poesia gli avvenimenti importanti della sua vita, lei che pur celebrando La viandanza (titolo di un’altra raccolta del ‘95) sapeva mettere profonde radici e diventare punto di riferimento per le persone cui voleva bene.
Amore e femminismo
Ci eravamo conosciute, però, non sull’onda della poesia, o almeno non solo. Fu il femminismo a cavallo fra gli anni Settanta e gli Ottanta, io ancora studente, lei già avviata a una splendida carriera universitaria, a ispirarci comuni battaglie sulle scale della Sapienza e nelle aule occupate. Io scrivevo cose tipo «nella pentola bolle la rivolta» e lei faceva i conti con «la temuta mia infedeltà piccoloborghese» (da Poesia femminista italiana a cura di Laura di Nola per Savelli, 1978). E seminari e tazebao per svelare il maschilismo degli scrittori su cui ci eravamo formate, rivendicazioni di genialità femminile, prime riflessioni sul come liberarci dalle prigioni da “secondo sesso”. Cercavamo la quadra fra politica e poesia.
Ci divertivamo anche molto e ci innamoravamo altrettanto, soprattutto di noi stesse. In un brano del 2016 che ha voluto raccogliere in Nessuno veda nessuno dice questo di sé: «Divenni femmina nel linguaggio, prima che nel corpo, anzi affemminata». E Affemminata (Geiger) è il fortunato titolo della sua prima raccolta di versi presentata da Antonio Porta nel 1976. Intanto approfondiva in un saggio del 1980 la specificità de La letteratura al femminile (De Donato) e pubblicava qualche anno dopo il suo unico romanzo, Velocità di fuga, riproposto quest’anno da FVE: un ritratto di giovani intellettuali che si incontrano in uno scantinato per parlare di letteratura mentre intorno esplode il Sessantotto, la presa di coscienza di una ragazza che si sente parte del gruppo, ma in realtà tocca con mano la pesante emarginazione che le impongono i suoi “compagni”. Ancora una volta, questione di sguardi: quello aperto di donne che si sentono uguali, quello presuntuoso di uomini che continuano a vederle come oggetto di desiderio.
Ovunque noi siamo
Perché la tematica dello sguardo, se vogliamo chiamarla così, appartiene da sempre all’opera di Biancamaria Frabotta, che sa essere leggerissima (e penso a Risatelle, dialoghetto in versi del 2006, scritto col marito per Empiria) come toccare complessità filosofiche o interrogare i poeti classici senza mai dimenticare l’autobiografia e una quotidianità plasmata Da mani mortali (altra importante raccolta del 2012, compresa nel volume mondadoriano Tutte le poesie). E qui lo sguardo si sdoppia in quello dei vivi sui morti e dei morti sui vivi, anzi si moltiplica comprendendo animali e piante, tutti sottoposti agli occhi invisibili di un dio che non protegge e anzi forse si prepara a sferrare il colpo.
C’è una sezione in Nessuno veda nessuno che s’intitola «Ovunque noi siamo» ed è introdotta da un’epigrafe tratta da sant’Agostino: «Coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dov’erano ma sono ovunque noi siamo». Mi ricorda un passo di Julian Barnes nel romanzo Livelli di vita (Einaudi), scritto dopo la perdita della moglie: «Il fatto che una persona sia morta può voler dire che non è viva, ma non che non esiste». Tanto più, se era un grande poeta. Per questo concludo passando la parola a Biancamaria con una poesia fra le più visionarie di questo nuovo e purtroppo ultimo suo libro.
S’intitola “A proprie spese”:
«In una buia alba di vento / ho rimesso al mondo i morti / sognando a occhi chiusi / come è giusto che sia.
L’assenza unisce e disunisce / divide e avvicina ai vivi i risorti. / A questa sacrosanta finzione / mirabile e irreale, non potremo mancare.
Capirete. Dall’alto qualcuno attende / una parola. Altro miracolo non conosco.
Capirete. Non posso svegliarmi ora.
Ancora qualche minuto / la realtà può attendere. / Capirete. E non mi crederete».
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