- L’Oscar per il miglior documentario è stato assegnato nel 2021 a Il mio amico in fondo al mare (2020), una produzione Netflix che narra la storia della singolare relazione tra il sudafricano Craig Foster e un polpo.
- Per un intero anno il naturalista si è immerso ogni giorno in apnea nelle acque di una baia vicino a Cape Town e ha seguito da vicino la vita quotidiana di un polpo femmina.
- Fortunatamente non tutti rimangono traumatizzati dai polpi. Ringo Starr, ad esempio, durante una vacanza in barca in Sardegna nel 1968 sentì dire dal capitano che i polpi raccolgono pietre e conchiglie per costruire giardini subacquei, e sognò di potersi rifugiare nell’Octopus’s garden (1969).
L’Oscar per il miglior documentario è stato assegnato nel 2021 a Il mio amico in fondo al mare (2020), una produzione Netflix che narra la storia della singolare relazione tra il sudafricano Craig Foster e un polpo: un rapporto forse meglio descritto dal titolo originale del documentario, che era My octopus teacher, o “La mia insegnante-polpo”. Per un intero anno, infatti, il naturalista si è immerso ogni giorno in apnea nelle acque di una baia vicino a Cape Town e ha seguito da vicino la vita quotidiana di un polpo femmina, riuscendo a stabilire una sorta di “incontro ravvicinato del terzo tipo” con un essere veramente alieno.
Durante l’anno di osservazione la femmina si è abituata alla vicinanza dell’uomo, arrivando spesso a stabilire un contatto fisico con lui. Durante un attacco uno squalo le ha strappato un tentacolo, ma lei l’ha rigenerato nel giro di tre mesi. In seguito si è salvata da un altro attacco, appiccicandosi al dorso dello squalo. Dopo essersi accoppiata con un polpo maschio, ha deposto decine di migliaia di uova e si è letteralmente consumata nella cura dei piccoli e nella loro difesa dai predatori, secondo l’amaro destino della sua specie. Al termine del documentario il suo corpo ormai senza vita viene infine azzannato da uno squalo, e la protagonista del film scompare dalla scena nelle fauci del predatore.
Particolarità
Quello che si vede nel documentario è un tipico polpo comune, chiamato scientificamente Octopus vulgaris: mentre “polpo” significa semplicemente “polipede” o “multipode”, Octopus precisa che di piedi o tentacoli ce ne sono otto, e individua un genere costituito di circa 300 specie. Uno dei tentacoli del polpo è un organo di riproduzione, come aveva già intuito Aristotele nella Storia degli animali: in molte specie viene usato per depositare gentilmente lo sperma sotto il mantello della femmina, o diffonderlo nell’acqua vicina a lei, mentre in alcune specie viene staccato e affidato alla femmina, anche se poi si rigenera nel maschio. Nel gigantesco polpo a sette tentacoli è invece arrotolato in una sacca sotto l’occhio destro, dando appunto l’impressione che ci sia un braccio in meno.
Un’altra particolarità, già notata da Aristotele e ben visibile nel documentario, è una straordinaria capacità camaleontica: benché il polpo stesso sia cieco ai colori, la sua pelle può acquistare istantaneamente il colore del fondale o dell’ambiente. Inoltre, in caso di pericolo il polpo può emettere una nube di inchiostro per “intorbidire le acque”, visivamente e olfattivamente, grazie al colore nero del liquido e agli ormoni stranianti che esso contiene.
Il polpo non ha sangue rosso, ma verde-azzurro (perché per trasportare ossigeno non usa emoglobina contenente ferro, ma emocianina contenente rame), e ha tre cuori: uno, generico, serve per far circolare il sangue nell’intero corpo, e gli altri due, specifici, per pomparlo nelle branchie. Quanto alla locomozione, il polpo può muoversi sia in avanti, usando i tentacoli per camminare o nuotare, sia all’indietro, espellendo violentemente l’acqua dal corpo attraverso lo stesso sifone che gli serve per emettere l’inchiostro: per la terza legge di Newton, genera in tal modo una propulsione idrodinamica retrograda, analoga a quella aerodinamica degli aerei a reazione.
Naturalmente, il fatto di avere otto tentacoli indipendenti rende il movimento del polpo estremamente versatile, da un lato, e altrettanto complesso da simulare meccanicamente, dall’altro: molto di più, ovviamente, della già complicata locomozione umana. Ciò nonostante, l’impresa è riuscita recentemente alla bioingegnere industriale Cecilia Laschi, che a partire dal 2009 ha realizzato alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa un progetto di robotica “soft” chiamato Octopus, dove la qualifica “morbida” sta appunto a indicare la presenza di una struttura flessibile, opposta a quella rigida della robotica “hard” tradizionale.
Tentacoli e ventose
Per l’uomo, però, l’aspetto più inquietante dei tentacoli del polpo è forse la presenza della doppia fila di ventose che gli permettono di aderire in maniera pneumatica alle superfici, creando del vuoto nei punti di contatto. La figura mitologica di Medusa, che non a caso era una divinità marina, sembra non rappresentasse altro che un polpo avvinghiato a una testa umana, con i tentacoli trasfigurati in serpenti: di qui il famoso sguardo impietrito e impietrente raffigurato da innumerevoli pittori classicisti, da Caravaggio (1598) a Rubens (1618).
Più conturbante che inquietante è invece la stampa intitolata Il sogno della moglie del pescatore o I polpi e la pescatrice subacquea (1814) di Hokusai, in cui i tentacoli e le ventose fungono da moltiplicatori delle possibilità fisiologiche delle braccia e delle labbra di un amante. Per non dare adito a dubbi, il disegnatore dichiara esplicitamente il suo intento erotico o pornografico, facendo esclamare al polpo grande: «Finalmente ti ho agguantata, e ti posso avvinghiare con otto tentacoli! Il tuo sesso è una meraviglia da succhiare e succhiare e succhiare». Alla donna: «Polpo odioso, le tue ventose che mi succhiano mi tolgono il respiro». E al polpo piccolo, che freme impaziente: «Quando papà avrà finito, voglio anch’io incollare le mie ventose su di te e succhiarti per bene a mia volta».
La classica rappresentazione letteraria del polpo, inteso come animale pericoloso e aggressivo, è invece il romanzo I lavoratori del mare (1866) di Victor Hugo, che racconta una lotta tra il protagonista e una piovra: questo neologismo lo scrittore lo mutuò dalla forma dialettale normanna di polipus, da lui imparata durante il suo lungo esilio nell’isola di Guernay, dov’è appunto ambientato il romanzo. Da allora il termine è entrato nell’uso comune in Francia e in Italia, anche se con il passare del tempo è passato a indicare dapprima un generico “mostro marino”, come in Ventimila leghe sotto i mari (1869) di Jules Verne, e poi una tentacolare organizzazione criminale, come nel film di James Bond Octopussy. Operazione piovra (1983) e nella serie televisiva italiana La piovra (1984-2001).
In ogni caso, la piovra del romanzo di Hugo era un semplice polpo comune, che si appiccicò a suo figlio durante una nuotata. Nella fantasia del romanziere il povero animale si tramutò in un mostro che «solo Dio poteva creare, mentre Orfeo, Omero ed Esiodo non hanno potuto inventare che la chimera». E scatenò una repulsione generata dal fatto che «la piovra non ha massa muscolare, né grida minacciose, né corazza, né corna, né pungiglioni, né tenaglie, né code avvolgenti o prensili, né pinne taglienti o aguzze, né spine, né spade, né scosse elettriche, né sostanze irritanti, né veleni, né artigli, né becco, né denti. La piovra, di tutti gli animali, è quella con l’arma più formidabile: le ventose».
E quando ti si avvicina, «una forma grigiastra oscilla nell’acqua, è grande quanto un braccio e lunga circa mezzo metro, è un velo che assomiglia a un ombrello chiuso senza impugnatura. Questo straccio avanza a poco a poco verso di te. Di colpo si spalanca, ed emette bruscamente otto raggi attorno a un viso con due occhi. Questi raggi sono vivi e si infiammano ondeggiando, come una specie di ruota. Dispiegata, la piovra ha un diametro da un metro a un metro e mezzo. Si apre come un fiore spaventoso. Ti si butta addosso e ti arpiona. Infine l’idra si applica alla sua preda, la copre e la lega con le sue lunghe bande».
Alle fantasie letterarie appartiene ovviamente anche la leggenda del Kraken, un polpo gigante di cui narrano le saghe medievali scandinave: Linneo lo inserì nel Sistema della Natura (1735) con il nome di Microcosmus, ma poi lo cassò dalle edizioni successive. È invece reale il polpo gigante del Pacifico, di cui è stato osservato un esemplare con un’apertura tentacolare che arrivava a quasi dieci metri, anche se la norma è circa metà: rispetto alle altre specie, che vivono al massimo un anno e mezzo o due, questo polpo può invecchiare fino a quattro o cinque, ma la femmina continua comunque a partorire un’unica volta nella vita, e a morire dopo lo svezzamento dei piccoli.
Percezioni
Fortunatamente non tutti rimangono traumatizzati dai polpi, e molti li ritengono invece amabili e piacevoli. Ringo Starr, ad esempio, durante una vacanza in barca in Sardegna nel 1968 sentì dire dal capitano che i polpi raccolgono pietre e conchiglie per costruire giardini subacquei, e sognò di potersi rifugiare nell’Octopus’s garden (1969) della sua canzone con i Beatles. In realtà, come racconta Peter Godfrey-Smith in Altre menti. Il polpo, il mare e le remote origini della coscienza (2016), il polpo raccoglie pietre e conchiglie per nascondersi e proteggersi dai predatori, e le può saldare attorno a sé in una specie di armatura temporanea, sfruttando le ventose.
Questo e altri comportamenti hanno tutta l’aria di essere intelligenti, e il libro discute appunto il problema se il polpo lo sia per davvero. In ogni caso, sicuramente si percepisce in maniera diversa da come noi percepiamo noi stessi: il suo sistema nervoso è infatti organizzato in maniera opposta a quello dei vertebrati, essendo più distribuito che centralizzato, e mostra che la mente si è sviluppata in almeno due maniere diverse nel regno animale.
In particolare, due terzi dei suoi molti neuroni (mezzo miliardo, quanti un coniglio e un po’ meno di un gatto) non stanno nel cervello, ma sui tentacoli, e permettono al polpo di percepirli e azionarli individualmente, ciascuno in maniera autonoma e indipendente dagli altri tentacoli e dal resto del corpo.
Il libro di Godfrey-Smith e il documentario di Foster forniscono due immagini complementari del polpo, essendo entrambi basati su esperienze subacquee personali e parallele, raccontate dal primo con le parole e dal secondo con le immagini. E a chiunque abbia letto le prime, o visto le seconde, risulterà difficile continuare a considerare il polpo soltanto come un gustoso ingrediente per le insalate di mare, o una facile preda per la caccia subacquea.
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