Per plateale ironia, i giornalisti invitati a visionare in maratona l’impresa titanica di Netflix Italia, la rilettura seriale de Il Gattopardo, sono stati gentilmente omaggiati della fresca ristampa Feltrinelli per I Narratori. È ironico perché gli artefici della serie, su piattaforma dal 5 marzo, dovrebbero temere il romanzo come i vampiri il crocifisso. Sconsiglio a tutti l’azzardo di ripassare il libro da cima a fondo per l’imminente evento tv: fareste torto alla Maison della N ma soprattutto a voi stessi, a meno che non vi fermiate alla pagina scritta. Commessa la suddetta corbelleria, inventariare le libere integrazioni degli sceneggiatori britannici – Richard Warlow e Benji Walters – a un testo colpevolmente spilorcio di entertainment per le masse illetterate può diventare un esercizio spassoso.

Il povero Luchino Visconti, così fedele allo sguardo di Tomasi di Lampedusa, a quel «senso di morte che neppure la frenetica luce siciliana riusciva mai a disperdere» (per quanto pochissimo fedele al suo patrimonio di ironia), ai giorni nostri sarebbe cortesemente invitato da Netflix a scansarsi. Un ballo solo per sei episodi da imbottire di “contenuti”? Ne occorrono almeno tre. Niente di meglio di un po’ di moto per mettere pepe nella regia anonima del main director, Tom Shankland, inglese anche lui. Gli italiani d’appoggio, Laura Luchetti e Giuseppe Capotondi, firmano un episodio ciascuno.

LUCIA IUORIO/NETFLIX
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Le incongruenze

Scopriamo così che quegli scioperati degli ufficiali garibaldini, appena liberata Palermo, si dedicavano anima e corpo ai party danzanti per la nobiltà, e che esisteva una versione di gala della camicia rossa d’ordinanza, un must, si suppone, nel guardaroba dei Mille. Fantastoria surreale in libertà: il costumista Carlo Poggioli, faute de mieux, ha copiato quella degli Ussari. Si balla anche nel feudo agreste di Donnafugata, pura utopia democratica: in piazza e col Principe di Salina confuso tra la plebe in panchina. Vabbè.

Il solito drone inquadra i garibaldini in parata, tra ali di folla festante, geometricamente irreggimentati con il rigore di una Wehrmacht ante litteram, e Tancredi condannato alla fucilazione (?!?) viene salvato dallo “zione” al prezzo di un’intera tenuta. Se non sei fresco di romanzo magari ci credi. Bazzecole, direte voi. Trattasi in fondo di un prodotto da esportazione, e anche da noi italioti a colpi di belle donne, crinoline e palazzi abbaglianti la tua brava porzione di pubblico la porti a casa.

Purché, beninteso, l’amore regni sovrano. E qui interviene la variante strategica. Perché il main character dello sceneggiato – pardon, chiamarla serie è più chic – non è Don Fabrizio Corbera, come da buoni sessantasette anni si crede e come probabilmente hanno detto al bravo Kim Rossi Stuart per convincerlo a raccogliere il testimone di Burt Lancaster. Nossignori, protagonista assoluta della narrazione è sua figlia Concetta, che nel film di Visconti era una zitellesca Lucilla Morlacchi e aveva sì e no quattro battute. È pura malignità pensare che la sceneggiatura si inchini al potere contrattuale dei singoli attori, ma Benedetta Porcaroli, Concetta, nello sguarnito firmamento italiano dei giorni nostri è la star più rampante del cast.

Così il baricentro narrativo (con dovizioso corredo di primi piani eloquenti) diventa a sorpresa la soap più sfacciata, il suo amour fou per il cugino Tancredi, il tradimento del padre e dello sposo agognato, la gelosia per Angelica Sedara e per il potere congiunto della bellezza carnale e dei piccioli, che esploderà in scene madri e isterismi torinesi ignoti, anche quelli, a Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Il povero Gattopardo è spodestato senza appello, ma non dai nuovi furbetti del Regno d’Italia, dalla dittatura dell’algoritmo, che virerebbe perfino la Divina Commedia in romance. E fa tenerezza il candore con cui Porcaroli confessa di aver dedicato un immane sforzo di immaginazione alla costruzione del suo personaggio: per forza, il Principe scrittore non offre appigli, sfiora Concetta e passa oltre.

Incompatibile col Cencelli di parità sessuale che è un diktat per i copioni seriali, il carisma inviolabile di Don Fabrizio viene preso a sassate. Tutte le femmine di casa rimbeccano senza freni il pater familias, povero cristo, compresa la consorte di cui dopo sette figli non ha «mai visto l’ombelico». Poca cosa, paragonata alla battuta fuorviante e offensiva che gli mettono in bocca quando consegna un gruzzolo a Tancredi, rivoluzionario per calcolo: «Sempre in Sicilia siamo: prima o poi avrai bisogno di corrompere qualcuno». Sarà mica Il Padrino? Abbiamo sbagliato film?

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Una serata da sprecare

Sappiamo tutti che i maschietti della X generation guarderanno questo Il Gattopardo solo per Deva Cassel – perché la sua mamma Monica Bellucci per loro è da ospizio – senza l’inutile zavorra dei paragoni con la venticinquenne (non diciassettenne, ma anche Deva ha già compiuto i ventuno) Angelica di Claudia Cardinale, incarnazione suprema del fulgore proletario e della spudoratezza carnale, vera perla del cast viscontiano. Alain Delon non è mai stato un bravo attore, ma il suo Tancredi Falconeri aveva il cinismo insolente e la sensualità dell’originale. Il solo titolo di Saul Nanni, il nuovo Tancredi, è la militanza di scuderia in casa Netflix con prodotti ordinari come Love & Gelato.

Guardarla? Sì, perché no? Capita sempre una serata da sprecare. A patto che non la si consideri «la grande avventura» di Netflix Italia, come vorrebbe Tinny Andreatta, vice presidente contenuti italiani della piattaforma streaming. La sola idea getterebbe nubi fosche sul nostro futuro. E a patto di correggere i crediti, garbatamente: alla dicitura “tratto da Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa” andrebbe almeno aggiunto un cauto ‘liberamente’. Per semplice, elementare, doveroso pudore.

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