- Bullsh*t (Cazza*te), il quiz arrivato nel catalogo di Netflix, tenta di sfidare il muro che separa l’on demand dalla tradizionale tv di compagnia.
- Forse per rastrellare abbonamenti mentre incombe l’arrivo delle piattaforme dei giganti hollywoodiani .
- Il format tenta l’impresa di mischiare il quiz all’ironia, il dramma alla commedia, col rischio che i pubblici elettivi si respingano a vicenda.
Il quiz-game, pilastro della tv tradizionale, è entrato nel catalogo di Netflix col nome di Bullsh*t (Cazza*e). Si parla americano ma si segue tutto agevolmente con l’aiuto dei sottotitoli locali, l’arma che grazie ai programmi di Intelligenza Artificiale fornisce traduzioni a buon mercato, funzionali e, talvolta, non prive di eleganza.
Come sempre, in Bullsh’t il quiz si mischia col reality. Anche il progenitore, Lascia o Raddoppia degli anni ’50, spremeva “umanità” dai concorrenti e i rotocalchi ne parlavano come simboli del “popolo comune” che esce dagli atri cercando soldi e gloria. Immancabile, secondo una moda più recente, la “giuria” di semi vip che consumano tempo con le chiacchiere e agganciano lo sguardo del telecomando più distratto.
Il concorrente sceglie volta a volta fra quattro risposte di cui una giusta e tre sbagliate. Ma la rivelazione della risposta esatta resta sospesa mentre il Nostro cerca di convincere almeno uno dei tre componenti la Giuria che la risposta che lui ha indicato è anche quella giusta. Vince così non chi azzecca le risposte, ma chi è più efficace nel mentire.
Fin dal titolo sprezzante, Bullsh’T si dichiara parodia di genere (quello del game show) satira e commedia ispirate dall’aria del momento tanto più nel Paese che s’è tenuto Trump per quattro anni in Casa Bianca.
Le motivazioni di mercato
Le motivazioni di Netflix sono chiare: tentare questa ed altre strade per tamponare le perdite d’utenza avvistate e segnalate con i tonfi della Borsa.
In parte per la fine della domanda legata ai lock down della pandemia, ma specialmente per il sopraggiungere della concorrenza di Disney e Warner, gruppi che con recente fusioni sono divenuti ancora più multiformi e resistenti alle cicliche oscillazioni del mercato dell’intrattenimento, perché non hanno solo uova nel paniere e integrano vari campi di business e differenti tipi di ricavi: dai proventi pubblicitari delle tv, ai biglietti dei parchi a tema, ai botteghini di cinema e on demand. In più, sono proprietari di contenuti sterminati che ieri noleggiavano a Netflix o Amazon mentre oggi, in linea di massima, se li tengono (specie i pezzi più pregiati) per distribuirli con proprie applicazioni.
Come dire che è passata la fase transitoria in cui il mercato s’è fatto guidare dai salti tecnologici rompendo i monopoli dei circuiti di proiezione e delle tv tradizionali a beneficio dei distributori – cosiddetti Over The Top – capaci di arrivare diretti alla clientela, Oggi quei disintermediatori vengono a loro volta disintermediati dai proprietari di grandi quantità di contenuti accumulati in library storiche, titolarità di format, migliaia di sceneggiature e plot pronti ad essere rivisti ed aggiornati. Il possesso del contenuto è tornato sopra il trono e anche Netflix del resto ha messo a frutto i margini di guadagno del suo provvisorio monopolio, producendo moltissimo in ogni angolo del mondo per non finire da un giorno all’altro buttata fuori mercato dai giganti.
Bullsh*t sarà preso sul serio?
Bullsh’t in questa strategia c’entra e non c’entra perché il quiz nasce in funzione del palinsesto tradizionale volto all’attenzione fuggevole mischiata coi contesti della cucina, del tinello, del salotto. Mentre l’on demand serve il consumo “intenzionale”.
Per non dire che il profilo ironico potrebbe scontentare sia chi ama il quiz, (perché lo prende in giro) sia chi ne detesta comunque l’esistenza. Peccato che non potremo controllare il risultato perché quei dati Netflix li terrà chiusi accuratamente nel cassetto.
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