Quando sono a Roma e passo davanti al carcere di Regina Coeli a Trastevere, penso a Gramsci. Mi sono trovata più di una volta davanti alla sua ultima dimora nel cimitero protestante di Testaccio. Quando però mi hanno chiesto di parlare delle sue lettere, per celebrarne la nuova e definitiva edizione critica presso Einaudi, ero lontana da Roma, e insegnavo un corso di traduzione in remoto a un gruppo di studenti universitari a Princeton, nel New Jersey.

Non stupirà che immergermi nella realtà quotidiana e nelle riflessioni di un uomo che è stato internamente esiliato e incarcerato per undici anni, separato dalla famiglia, dagli amici e dal mondo in generale per le sue convinzioni politiche, abbia cambiato la mia percezione dei mesi di restrizioni e interazioni umane limitate a causa della pandemia globale. Ma sono altri i motivi per cui una lettura scrupolosa e metodica delle lettere di Gramsci, per un periodo di due mesi, mi ha sorpreso.

È stato solo grazie all’impegno con le sue lettere durante la pandemia che sono arrivata a considerarlo, e ora a venerarlo, come un’icona della traduzione.

Viaggio di traduzione

In una lettera del 19 dicembre 1926 dall’isola di Ustica Gramsci scriveva alla cognata Tania Schuct: «È stato questo il pezzo più brutto del viaggio di traduzione». Fino a poco fa non sapevo che la parola traduzione, in italiano, avesse un secondo significato: è un termine burocratico che si riferisce al trasporto di persone sospettate di crimini o detenute.

La scoperta di questo secondo significato mi ha sconcertata e stupita. Come potevo non saperlo, dopo il mio intenso studio dell’italiano per quasi un decennio e il mio rapporto con l’attività e l’insegnamento della traduzione?

Ho cominciato a pensare sia ai prigionieri che al linguaggio in transito, sullo stesso spettro ontologico. Nella lettera del 19 dicembre, Gramsci racconta, minuziosamente, i suoi spostamenti da un luogo all’altro: una sequenza di manette, automobile dalla prigione al porto, barca, vaporetto, una serie di scale, cabina di terza classe, polsi legati a una catena che lega altri polsi, e una destinazione finale: la sua cella.

È consapevole di ogni momento di transizione, di ogni cambiamento. Il ricordo di questi movimenti è ovviamente sottolineato dalla sua forzata immobilità. Osserva: «Non possiamo oltrepassare determinati limiti». Il punto di tutto quel movimento (per i suoi rapitori) era, alla fine, la condizione del non-movimento, o del movimento vincolato e sorvegliato.

Gramsci arrivò a Ustica, quindi, grazie a un viaggio di traduzione. Gli undici anni successivi sarebbero stati un viaggio di traduzione di un altro tipo.

I dizionari e le grammatiche

Parte della realtà della prigionia di Gramsci consisteva in una continua richiesta, nelle lettere, di alcuni oggetti essenziali, tra cui vestiti, articoli per l’igiene personale e medicinali. Ma elementi essenziali per Gramsci erano anche i libri, sia italiani che in traduzione e, tra i libri, un flusso costante di dizionari e grammatiche straniere che rappresentavano il suo profondo rapporto con le altre lingue.

Appena arrivato a Ustica, il 9 dicembre 1926, chiede «subito, se puoi» una grammatica tedesca e russa, e un dizionario di tedesco. Nel delineare la sua routine carceraria, indica come seconda priorità (la prima è mantenersi in buona salute) l’intenzione di studiare tedesco e russo «con metodo e continuità». 

Il 19 dicembre chiede di nuovo a Tania la Berlitz tedesca e russa. Il 23 maggio ribadisce che gli studi linguistici restano il suo obiettivo principale. Chiede più dizionari, menzionando che uno è andato perduto. «Sono proprio deciso di fare dello studio delle lingue la mia occupazione predominante». 

Nel dicembre del 1929, in uno dei passaggi più commoventi delle lettere, afferma che se il suo animo non si abbatte è a causa del linguaggio, perché lo studio del linguaggio è la sua salvezza: «Il mio stato d’animo è tale che se anche fossi condannato a morte, continuerei a essere tranquillo e anche la sera prima dell’esecuzione magari studierei una lezione di lingua cinese».

Matrimonio

La traduzione può essere intesa come un matrimonio tra testi. Gramsci si sposò letteralmente: in Russia, nel 1922, lo stesso anno in cui Mussolini saliva al potere, conobbe Giulia Appolonovna Schucht. Nata da genitori russi, Giulia aveva trascorso la sua infanzia in Svizzera e a Roma, ma era tornata a vivere in Russia quando aveva quasi vent’anni.

Quando Gramsci andò a visitare Ivanov-Voznesensk come membro del Presidium dell’Internazionale Comunista, lei gli fece da interprete. Insieme hanno lavorato alla traduzione di un romanzo di Bogdanov. Nel 1923 si sposarono. A quel punto la traduzione divenne una parte permanente della vita personale, delle relazioni familiari e del futuro di Gramsci.

Doppia identità

Gramsci era e sarà sempre più di una cosa sola: sia sardo che italiano, sia politico che linguista. E, sebbene sia stato confinato per undici anni, rimaneva in costante comunicazione con gli altri. Come Primo Levi, Gramsci era una figura poliedrica. Eppure, il rovescio della medaglia di una identità doppia (o plurale) può essere anche una mancanza di identità.

In una lunga lettera del 12 ottobre 1931, Gramsci parla a Tania della questione della lingua e della razza, e in particolare della condizione ebraica – sua suocera proveniva da una famiglia ebrea; le prime leggi razziali erano ancora lontane. «Una “razza” che ha dimenticato la sua lingua antica significa già che ha perduto la maggior parte dell’eredità del passato, della prima concezione del mondo che ha assorbito la cultura (con la lingua) di un popolo conquistatore: cosa significa dunque più “razza” in questo caso?». 

Dichiara poi, nella stessa lettera, «io non ho nessuna razza». Sebbene verso la fine della missiva concluda che la sua cultura è «fondamentalmente italiana» e che non si è mai sentito «dilaniato tra due mondi», credo sia proprio la mancanza di radici precise, e di linguaggio, unita alla sua insaziabile sete per nuove lingue, a dare alla luce e a sostenere il Gramsci traduttore.

Paternità attraverso le parole

È soprattutto grazie alla lingua, sotto forma di lettere, che Gramsci è padre. Ha avuto pochi contatti con Delio, nato a Mosca, e non ha mai visto Giuliano. Vivevano in Russia e gli scrivevano in russo. È solo nella corrispondenza che condivide con loro ricordi e altri pezzi del suo passato. È solo nelle lettere che riesce a stabilire un legame con loro. Eppure, la lingua pone un’ulteriore barriera.

Sia Giulia che Tania fungono da figure chiave, come traduttrici, in modo che Gramsci possa comunicare con i suoi figli. Il 26 marzo 1927 nota con orgoglio che Delio ha iniziato a parlare la lingua di sua madre, il russo, e osserva che conosce anche l’italiano e canta in francese senza confondersi.

Un anno prima della fine della sua vita, il 5 novembre 1936, scrive di nuovo a Giulia sperando che possa tradurre le sue lettere ai figli, che non ha mai conosciuto, «per “tradurre” non letteralmente, ma secondo la loro mentalità, i miei bigliettini a loro, per aiutarmi a comprendere loro intimamente». 

Per quanto amorevoli e persistenti siano le sue lettere ai suoi figli, il sentimento prevalente è di acuta frustrazione: si sente come un fantasma nelle loro vite. Il 14 dicembre 1931 confessa a Tania di temere che i suoi figli lo considerino un Olandese volante, quindi si domanda «Come potrebbe scrivere l’olandese volante?». Un Olandese volante è una nave fantasma destinata a solcare i mari per sempre, a essere in eterno transito. Nell’identificarsi con questa immagine, Gramsci complica ulteriormente la questione dell’identità e, presagendo forse la propria fine, diventa veicolo oltre che soggetto della traduzione.

Traduzione delle lettere

C’è un continuo bisogno di tradurre, per lo più dall’italiano al russo e viceversa, le lettere di Gramsci. Il 19 marzo 1927 chiede a Tania di chiedere a sua volta alla suocera di inviargli una lunga lettera o in italiano o in francese. Nello stesso messaggio accarezza l’idea di approfondire la sua tesi universitaria, uno studio di letteratura comparata, e usa il tedesco «für ewig» (per sempre) per descrivere le sue intenzioni.

Questo è solo un esempio delle tante parole e frasi non italiane intrecciate nelle lettere, che devono essere tradotte per qualsiasi lettore che non conosca tutte le lingue che vi compaiono. Oltre alla serie di parole russe che affiorano, soprattutto nelle sue lettere ai figli, e ai termini sardi di cui scrive a sua madre e ad altri, mi sono imbattuta nelle parole inglesi “thermos” e “schooners”, in “mneme” (dal greco per memoria) e in “échaffaudage”, che significa impalcatura in francese.

Leggendo le lettere ho imparato nuove parole italiane tra cui zufolare, un altro modo di dire fischiare, che Gramsci usa per descrivere il suono che idealmente si manifesterebbe se Giulio e Delio sapessero far saltare i sassi sull’acqua (18 maggio 1931).

Traduzione nelle lettere

Sappiamo che, tra i quaderni scritti da Gramsci durante la prigionia, alcuni erano interamente dedicati alla traduzione. Ma Gramsci scrive spesso di parole e dei loro significati, cioè di problemi di traduzione, anche nelle lettere.

Il 18 gennaio 1932, alla sorella Teresina, fa riferimento alla propria traduzione dal tedesco («come esercizio») delle fiabe dei Grimm, che produce «come un mio contributo allo sviluppo della fantasia dei piccoli». Ci sono diversi elementi bilingui nelle lettere, diversi problemi di traslitterazione. Molte lettere a Delio e Giuliano sono firmate «papa» in caratteri cirillici. Il 20 maggio 1929 Gramsci firma una lettera a Delio «Toi papa», che è una traslitterazione imperfetta dal russo tvoj papa, tuo padre.

Differenza ed equivalenza

Gramsci, che attraverso le lettere medita sull’evoluzione misteriosa delle parole e dei loro significati, è spesso preoccupato di come si dicano le cose nelle altre lingue.

Il 18 maggio 1931 troviamo una lunga riflessione sull’uso italiano di parole come felice e buono e bello. Lega queste espressioni alla cultura, al pio desiderio (o velleità), concludendo: «La vita reale non può mai essere concordata da suggerimenti ambientali o da formule, ma nasce da radici interiori». La questione del diverso e dell’equivalenza linguistica è cruciale per qualsiasi traduttore. Cerchiamo l’equivalente sapendo bene che, data la differenza tra una lingua e l’altra, un vero equivalente non esiste.

Dialetto

Le lettere contengono numerosi riferimenti e digressioni sul pensiero di Gramsci intorno alle questioni della lingua e del potere, in un’epoca in cui si decantava la lingua nazionale italiana. Ma il 17 novembre 1930 dice a Tatiana che persiste, e continua a esistere, una «doppia lingua»: la lingua del popolo contrapposta alla lingua dotta degli intellettuali. Questa lingua del popolo è il dialetto, in contrapposizione all’italiano «ufficiale».

Le lettere di Gramsci a sua madre sono piene di domande sulle espressioni in sardo. Il dialetto lo lega alla madre, alle sue origini e anche a un certo ottimismo. Il 15 dicembre 1930, in una lettera alla madre, osserva che son passati cinque anni da quando è stato imprigionato, e usa un’espressione sarda per descrivere la sua condizione: «Del resto non ho perduto il gusto della vita; tutto mi interessa ancora e sono sicuro che anche se non non posso più ’zaccurrare sa fae arrostia’ tuttavia non proverei dispiacere a vedere e sentire gli altri a zaccurare». Vuole dire: sgranocchiare le fave arrostite.

Avanti e indietro

Possiamo pensare alla traduzione come un avanti e indietro e possiamo rilevarlo, in termini molto reali, nelle lettere che vengono spedite e arrivano, nei pacchi che vengono ricevuti o meno. È l’avanti e indietro del linguaggio attraverso il tempo e lo spazio a sostenere Gramsci.

Confine-Confino

Questi due termini chiave per Gramsci – chiamiamoli fratelli, se non gemelli identici – radicano nel verbo “confinare”, che in italiano ha due significati. Uno è intransitivo, l’altro è transitivo. L’intransitivo confinare significa condividere un confine comune. La versione transitiva significa invece mandare via qualcuno, in un luogo isolato, come punizione. Questo secondo senso può essere espresso anche con l’espressione “mandare al confino”.

In italiano dunque la linea che corre tra un territorio e l’altro – e per estensione, tra una lingua e l’altra – si riferisce anche a un atto punitivo esercitato dalla distanza. La radice di confinare è “con fines” (dal latino cum finis): con limiti, cioè porre dei limiti.

Il transitivo e punitivo confinare, in italiano, emerge sotto il fascismo, ed è il verbo che descrive e definisce lo stato di Gramsci mentre scrive le sue lettere e riempie quaderni. Questa parola può essere stata il destino di Gramsci, ma è stata anche la sua liberazione. Il latino Confinis (così come i relativi termini confina e confinium) puntano tutti al confine comune, a rapporti di contiguità e vicinanza e parentela, proprio come vediamo nelle lettere gramsciane. In altre parole, ciò che separa rappresenta anche la prossimità.

Traduttore

Gramsci scrive sia a Giulia che a Tania a proposito dell’importanza della traduzione e di diventare un traduttore. Il 5 settembre 1932 consiglia a Giulia di essere una traduttrice dall’italiano sempre più dedita e qualificata. Per Gramsci, ciò vuol dire andare oltre la corrispondenza commerciale e la prosa giornalistica verso «la capacità di tradurre qualsiasi autore, sia letterario, o politico, o storico o filosofo… ». Spiega a lei – e anche a noi – il valore del mestiere: «Cioè un tale traduttore dovrebbe conoscere criticamente due civiltà ed essere in grado di far conoscere l’una all’altra servendosi del linguaggio storicamente determinato di quella civiltà alla quale fornisce il materiale d’informazione». Il traduttore, dunque, ha un ruolo storico; partecipa nel farsi la storia.

Traducibilità

Da quando ho intrapreso questa lettura sistematica delle lettere, ho scoperto un’abbondanza di studi sulla teoria della «traducibilità» di Gramsci e, in senso lato, sulla centralità del concetto di traduzione nel suo pensiero politico. Quando ho cercato “traducibilità” nel Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia, una delle citazioni indicate era tratta dall’undicesimo taccuino di Gramsci: «È da risolvere il problema: se la traducibilità reciproca dei vari linguaggi filosofici e scientifici sia un elemento “critico” proprio di ogni concezione del mondo o solamente proprio della filosofia della prassi». È stato abbastanza significativo trovare Gramsci, amante dei dizionari di lingue straniere, incorporato in questo dizionario italiano che amo particolarmente.

Traduzione ordinaria

Leggendo la biografia di Gramsci nella nuova edizione delle lettere ho trovato il termine «traduzione ordinaria». Ha a che fare con la maniera specifica e le regole attraverso le quali Gramsci è stato fisicamente spostato da un luogo all’altro – in nave, in treno, in automobile, da solo, con gli altri.

Naturalmente, questo senso tecnico di “traduzione” deriva dalla radice latina, traductio, da verbo traducere per dire “trasportare, trasferire, condurre al di là”. Il fatto che questa parola si riferisca al movimento dei detenuti mi ha fatto riflettere sul movimento analogo delle lingue (anche se dico ai miei studenti che la metafora del movimento può ingannare, anche limitare, visto che non definisce fino in fondo la vera metamorfosi della traduzione).

Per capire il senso di una traduzione ordinaria dobbiamo considerare l’aggettivo. Gramsci incarnava la traduzione: quella ordinaria, e quella straordinaria.

Trasformazione

Nei suoi ultimi anni Gramsci è acutamente consapevole della simultaneità di due trasformazioni: quella della sua salute, che entra in uno stato di profondo declino, e quella dei corpi dei suoi figli, che invece crescono e maturano. Scrive: «Giuliano mi pare completamente cambiato». «Stai diventando una persona grande». «Io sono molto cambiato». «Sono diventato inetto a qualsiasi cosa, anche a vivere».

La mutevolezza del suo stato è articolata più potentemente in una lettera del 6 marzo 1933, quando evoca l’apologo dei naufraghi sospesi tra la morte e il cannibalismo. «Ma in realtà si tratta delle stesse persone? Tra i due momenti, quello in cui l’alternativa si presentava come una pura ipotesi teorica e quella in cui l’alternativa si presenta in tutta la forza dell’immediata necessità, è avvenuto un processo di trasformazione “molecolare”». Ho letto questo passaggio come una glossa rivelatrice anche sul processo di trasformazione del testo.

Traslazione

Derivante dal latino traslatio, che significa (tra l’altro) trapiantare, la parola “traslazione” è seguita da quindici definizioni nel Battaglia, ed è preceduta da traslamento, traslatare, traslatario, traslato, traslatore, traslativamente, traslativo, traslatizio, traslato, traslatorio e traslazionale.

La prima definizione di traslazione si riferisce al trasferimento di qualcosa da un posto a un altro, in particolare un oggetto sacro spostato in un luogo di venerazione. Più in generale, il termine si riferisce allo spostamento di una o più persone. Solo con la terza definizione si arriva a “traduzione” come uno dei possibili significati, nel senso di cambiamento di un testo da una lingua all’altra.

Traslazione ha una serie di definizioni aggiuntive che hanno a che fare con il cambiamento delle leggi, la formazione dei cristalli, la trasformazione geometrica, la dinamica delle onde, il “transfert” psicoanalitico tra analista e paziente e, infine, una metafora o un tropo.

Oltre al Battaglia, ho trovato altrove ancora altri significati in italiano sotto l’ombrello di traslazione, tutti attinenti a Gramsci: un’accusa penale che viene modificata; un atto di trapianto o di innesto; trascrizione; metempsicosi e, infine, un termine ecclesiastico che si riferisce al passaggio dalla vita alla morte.

Significato

Se la traduzione si riferisce alla ricreazione (o all’approssimazione) del significato, allora chiuderò interpretando cosa abbia significato leggere per mesi le lettere di Gramsci, e pensare più in generale alla sua eredità, in una nazione che non ha mai visitato, in una biblioteca che ospita i suoi scritti, il suo pensiero: libri non solo di lui ma su di lui, e libri aggiuntivi di cui avevo bisogno per dare il massimo senso possibile alle sue parole.

Man mano che lo studio delle sue lettere si intensificava, è diventato sempre più difficile per me interromperne la lettura (considerato che ogni sera, a una certa ora, dovevo pur andarmene dalla biblioteca). Le lettere mi hanno trasformata.

Leggendo Gramsci in italiano, mi chiedo come potrebbe essere trasformare lui in inglese. Non che le sue lettere non siano già state tradotte, ma una traduzione mia mi permetterebbe di conoscerlo a un livello ancora più profondo. È stato grazie alla regolare routine di confinarmi con lui, con le sue lettere e nient’altro, giorno dopo giorno, leggendole con metodo, in ordine, senza lasciare nulla al caso, che ho potuto formare il mio concreto rapporto con Gramsci non solo come traduttore, ma anche come genitore, figlio, sposo: come qualcuno (e non siamo forse tutti così?) che interroga la storia e spera che il nostro mondo possa diventare giusto e tollerabile.

Mentre leggevo in stato d’isolamento e capivo, attraverso di lui, non solo il più ampio possibile significato della parola “traduzione”, ma anche cosa significhi essere liberi, il suo fantasma era con me.

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