- La serietà da attori di metodo con cui i bambini giocano con le spade è inquietante, molto più intensa di una sparatoria con pistole finte o uno scontro di magia. Nell’ultimo romanzo di Domenico Starnone questo cortocircuito tra “per finta” e “per davvero” si consuma in un duello ingenuo e quasi crudele.
- Anche Bontempelli e Ungaretti, a casa di Pirandello, giocarono seriamente al duello con le spade. Io da bambino volevo tantissimo farlo con mia sorella ma lei, pur cordiale, delle spadate fatte bene se ne infischiava.
- Forse i virtuosismi spadaccini di Star Wars mi allettavano banalmente perché volevo danzare in quel modo marziale, essere elegante e bello più che cavaliere, vezzoso e virile come Kylo Ren. Questo contributo è parte del nuovo numero della newsletter Cose da maschi. Per iscriverti clicca qui.
Mi dicono che a due anni e mezzo, alla notizia che avrei presto avuto una sorella, non reagii con particolare entusiasmo. Nascere primo figlio del resto, unico maschio lungo la linea genealogica che porta il cognome paterno, dà un po’ l’impressione di essere venuto al mondo predestinato, speciale, irripetibile. È un’illusione assai dannosa, eppure ribadita da quasi tutte le storie sensazionali in televisione e al cinema (e persino nei libri, in teoria, educativi) al cui centro sta un giovane maschio. Basta una sorella, però, a interromperla proficuamente: non sei l’eletto, non sei il prescelto, non sei destinato a portare equilibrio nella Forza o a batterti all’ultimo sangue, per il bene di tutti, contro il Signore oscuro. Sei solo, più banalmente, il primo venuto: uno di due.
Io questo cambio di paradigma, comunque, non lo ricordo, o almeno non ricordo la diffidenza che, a quanto mi dicono, nutrivo nei suoi confronti. Forse, non lo nego, l’ho semplicemente rimossa. A essere onesti però, la prima autentica memoria emotiva che lego all’arrivo di mia sorella nella mia vita è un’aspettativa febbrile, un fregarmi le mani. A un certo punto ero, ne sono certo, su di giri. Non per l’arrivo di quella bambina in sé, o per l’amore e la curiosità che avrei, d’altronde, prestissimo sviluppato nei suoi confronti. La questione era più specifica. Non vedevo l’ora di avere in casa, sempre accessibile e tutta per me, un’avversaria per duelli di spade.
La spada nella roccia
Come invecchia bene, tra tutti i protagonisti maschi del catalogo di Walt Disney, il modello di Semola, capelluto Re Artù tutto ginocchia de La spada nella roccia. Prima di accedere a un’eventuale potenza muscolare di adulto, la sua forza di maschio non ancora uomo non era la gratuita bontà di Pinocchio, la gentilezza di Bambi e Dumbo, o il coraggio spensierato di Simba, Mowgli e Peter Pan. Non era nemmeno semplicemente l’intelligenza. Era il potenziale: la disposizione a imparare, a esperire le cose con curiosità.
Semola, in quel cartone, è soprattutto un ottimo discente, anche se fa imbestialire Merlino quando non onora il suo talento in divenire e si accontenta della mediocrità di una vita da scudiero, considerando un onore l’occasione di portare la spada a più buzzurri ma meglio nati titolari come suo cugino Caio.
Proprio per svolgere quel compito di servizio con zelo il ragazzo si risolve, verso la fine del film, a estrarre la famigerata spada dalla proverbiale roccia. Quella però diventa così, di diritto, sua, rivelando all’ultimo che era in effetti lui l’erede al trono. Ma (ecco il punto) anche sapendo infine di esserlo, unico degno di impugnare Excalibur alla fine del suo tirocinio col mago, quell’Artù più piccolo della sua stessa spada si sente comunque poco a suo agio nei panni del celebrato vincente cui tutto è dovuto, e ricorre di nuovo ai suoi mentori per essere ulteriormente istruito. Un finale senza clamori.
Il duello promesso
Ora apprezzo Semola ma da piccolo gli preferivo Merlino, che non teme di dichiararsi «il mago più potente del mondo». Ma soprattutto gli preferivo i ragazzini di altri film, cartoni e romanzi illustrati che, a differenza di lui, erano capacissimi di brandire spade come quelle giocattolo che chiedevo di continuo ai miei. Di quelle armi bianche, in legno e plastica, ero molto fiero.
Possedevo, in particolare, un set di due spade di polipropilene ispirate alla coppia di lame katana e wakizashi, proprie del samurai, cui tenevo con speciale cura. Ovviamente non avevo idea che fossero modellate su uno stile di combattimento ambidestro del Giappone feudale, né le distinguevo da quelle occidentali che più propriamente si estraggono dalle rocce e s’infilzano nei cuori dei draghi: ai miei occhi apparivano semplicemente come due spade sorelle, una grande e una piccola. Mi parve dunque che fossero destinate allo scontro con la nuova sorella minore che mi veniva fornita, così da non dover più sguainare la mia spada contro nemici immaginari.
Spadaccini finti per davvero
La serietà da attori di metodo con cui i bambini giocano alla tenzone con le spade è inquietante. Il livello di verità è incandescente rispetto a quello di una sparatoria con pistole finte o di uno scontro di magia. È secondo solo a quello della lotta a mani nude, che però forse non è mai davvero un gioco – almeno tra umani.
Nell’ultimo breve, tremendamente autentico romanzo di Domenico Starnone, Vita mortale e immortale della bambina di Milano, il protagonista bambino si accorda a un certo punto col migliore amico per un duello alla morte, il cui obiettivo è espresso chiaramente: l’omicidio del vinto. È un gioco, ma potrebbe giocarsi addirittura con una lama vera e, in ogni caso, i due non si dicono nemmeno per sbaglio che non si aspettano per davvero che uno di loro muoia. Non c’è tenerezza nel modo in cui Starnone, maestro del punto di vista intra-diegetico, scrive i dialoghi tra quei duellanti coi calzoni corti, che finiscono fatalmente per ferirsi davvero, rivelando infine che le intenzioni non erano quelle. Ma quali erano allora?
Ossessionato da sempre dai film di cappa e spada, penso che sia impossibile immaginare e coreografare una scherma vera, in cui si cerchi davvero di uccidere l’altro. Ma è altrettanto difficile divertirsi a giocare alla scherma senza rischiare concretamente che il gioco finisca male, che esca il sangue.
A casa di Luigi Pirandello, nel 1926, quelli che allora molti consideravano il più grande romanziere e il più grande poeta d’Italia, Massimo Bontempelli e Giuseppe Ungaretti, si sfidarono a singolar tenzone a causa di una polemica nata sui giornali. Ci sono ancora fotografie dei due che incrociano le spade in camicia e cravatta. Forse proprio il fatto che quel duello finì con una sanguinolenta ma trascurabile ferita all’avambraccio di Ungaretti, in cui la lama di Bontempelli affondò per tre dita, mi fa pensare che fosse tutto un gioco, una messinscena di fascistoide esercizio della virilità letteraria.
Immagino che chi, in più remoti passati, tirava di scherma per salvarsi la pelle, per ammazzare qualcuno, non fosse granché fotogenico. Ma a me della spada ha sempre attirato l’eleganza, la bellezza coreografica, il pericoloso ma controllato dialogo a distanza. Per questo rimasi deluso da mia sorella, che volentieri mi assecondava prendendo in mano il suo spadino, ma poi lo agitava a vuoto verso di me, senza davvero tentare di colpirmi. Se ne fregava del duello, voleva solo farmi contento.
Una danza da maschi
Il mio sogno si materializzò sullo schermo col ritorno di Star Wars nel 1999. Mia sorella combatteva come Darth Fener e Obi-Wan nel primo film di vent’anni prima – cioè non combatteva: uno sventaglio di lame senza scopo, serenamente impacciato. Agitava la spada come Zorro o Perseo nei film in bianco e nero della domenica pomeriggio. Io invece desideravo asperrime contese d’irreale agilità realistica come quelle tra Obi-Wan giovane, il suo maestro Qui-Gon e il terrificante Darth Maul: mezz’ora di danze di spade laser evidentemente provate e riprovate mille volte – e proprio per questo altissimamente autentiche nella loro falsità teatrale. Non volevo che mia sorella cercasse di uccidermi, ma speravo imparasse con me a mettere in scena una di quelle danze.
Le arti marziali (la scherma, medievale o fantascientifica, è una di esse) sono forse il codice in cui il corpo dei maschi può più serenamente esprimere un linguaggio coreutico, farsi danzatore senza danzare. Mia sorella mi fece capire che, in quanto bambina, a lei di tutta questa storia interessava poco. Le piaceva però avere una spada specificamente sua, come Excalibur era di Artù e, scoprii più avanti, Durlindana di Orlando, Narsil di Aragorn, Ghiaccio di Eddard Stark.
Anche la sposa di Uma Thurman, in Kill Bill, si fa forgiare da Hattori Hanzo una micidiale spada specialmente per lei, e specialissime sono le spade laser di Ashoka Tano, che nella recente serie del Mandalorian si incrociano con l’indistruttibile lancia di acciaio beskar di una valente avversaria, in un combattimento più bello di qualsiasi duello di jedi maschi precedente.
Il fatto è che non tutte le cose da maschi interessano poi tanto a chi maschio non è. E se non tocca proprio inghiottire il rospo, come accade a Semola costretto nel ruolo di re dalla sua spada, bisogna rassegnarsi e cambiare gioco, come mia sorella mi ha insegnato a fare. La sorella di Luke in Star Wars del resto, la mitica Leia, non si mette mai a fare a spadate come i maschi, ma diventa lo stesso generale e leader della resistenza, assumendo ruoli di ben più virile solennità poi ereditati dalla sobria Rei, che con la spada danza ben meno dell’emotivo Kylo Ren. La spada, questo fallico interlocutore dei cavalieri, li fa forse più vezzosi e ballerini delle loro assennate sorelle.
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