L’aspetto acustico per l’artista milanese non è un elemento a sé stante, Ci restituisce la poesia del vivere urbano, fatta di oggetti che spesso non sono nobili ma che portano con sé tutta la bellezza del reale, delle relazioni e di ciò che ci circonda. Una sorta di Alberto Savinio contemporaneo
All’ingresso della sua personale, dal titolo “Liliana Moro. Andante con moto” (fino all’1 aprile al Kunstmuseum Liechtenstein) l’artista ci coglie, e ci accoglie, di sorpresa con un fischio inaspettato che arriva mentre il visitatore sale le scale d’ingresso senza capire da dove venga il richiamo. Come preannuncia il grande orecchio al neon posto nell’atrio del museo, si tratta di un’esposizione che racconta un aspetto preciso della pratica di Liliana Moro (Milano, 1961): la sua relazione con il suono, elemento ricorrente dagli inizi della sua ricerca artistica. Una carriera iniziata alla fine degli anni Ottanta che nel 2019 l’ha portata a essere una delle tre autrici selezionate per rappresentare l’Italia alla Biennale di Venezia.
L’aspetto acustico per Moro non è un elemento a sé stante, al contrario è sempre legato al dato spaziale. Non è un caso che dopo aver oltrepassato le prime opere-indizi e aver varcato la soglia ci troviamo davanti a una distesa di miniature tridimensionali, realizzate a mano con i materiali più disparati, dalla carta, alla creta, al fil di ferro, con precisione da modellista. Si tratta di “Spazi”, un lavoro che nel 2019 fu esposto appunto alla Biennale come un unico assemblaggio di stanze in equilibrio una sull’altra e che invece qui occupa l’intera sala. Ogni riproduzione, sul proprio basamento, rappresenta un progetto espositivo realizzato dall’artista nel passato, mostrandoci così anche il suo modo di lavorare, ogni opera viene infatti pensata sin dal suo concepimento in relazione allo spazio che andrà ad abitare.
Lo si capisce bene poco più in là, entrando nel cerchio di 12 casse acustiche che compongono “Moi” (2012), una sorta di architettura sonora all’interno della quale il visitatore deve accedere per ascoltare la voce dell’artista mentre parla di una performance da lei messa inscena nel 1997. Ancor di più diventa chiara la relazione tra suono, in questo caso rumore, spazio e spettatore quando si è invitati a camminare dentro una stanza il cui pavimento è stato interamente ricoperto di cocci di vetro. Qui è lo spettatore stesso che, dapprima intimorito poi estremamente coinvolto, attiva il lavoro attraverso il calpestio, lo spazio infatti si riempie del crepitio del materiale che si frantuma sotto ai suoi piedi.
Liliana Moro non nasconde niente: i cavi sono cavi, hanno una funzione e non devono essere celati, allo stesso modo le pareti in cartongesso realizzate per strutturare il percorso espositivo hanno un’anima metallica che nell’allestimento l’artista ha scelto di non occultare. Il mondo di oggetti di questa artista infatti non è un luogo estetizzato ed estetizzante. Le sedie che utilizza in “Quattro stagioni”, un’opera che chiede di fermarsi ed essere utilizzata sedendosi attorno al tavolo, sono di plastica delle più comuni da esterni, così come gli ombrelloni e il tavolo stesso, fatto da assi da cantiere. È così che questo spazio, nato in occasione di un convegno nel 2014, crea al contrario una situazione del tutto informale, un luogo d’incontro e di discussioni addirittura conviviale. Moro poi è da sempre attratta dalle trombe acustiche, come quelle che s’incontravano sulle banchine dei binari anni fa, che però qui trasmettono a ripetizione 25 versioni di “Bella ciao”, nell’opera “…senza fine” del 2010. Anche gli zaini/carrello che emettono musica, come quelli che a volte s’incontrano in metropolitana portati da ambulanti musicisti di strada, l’hanno attratta al punto da realizzare una serie di opere dal titolo “Le Nomadi” (2023).
Ci sono anche immagini commoventi pur nella loro brutale materialità priva di orpelli, come un materasso in gommaspugna, una rete da letto e un registratore che emette un tango di Astor Piazzolla, legati insieme da una cinghia rossa e appoggiati in verticale a una parete, il tutto sotto al titolo di “Avvinghiatissimi” (1992). Tra le opere più note e ormai storicizzate qui troviamo, oltre a quest’ultima, anche “La passeggiata” (1988), fatta da 70 pattini di metallo costruiti dall’artista stessa e inutilizzabili poiché legati tra loro da una lunga catena, lavoro che, esposto in un parco a Novi Ligure agli esordi, testimonia anche l’interesse, che in Moro non si è mai spento, nei confronti degli interventi nello spazio pubblico e a contatto diretto con le reazioni delle persone.
La mostra termina con un’opera inedita che apre e chiude un’altra relazione importante dell’artista, quella con l’opera di Samuel Beckett, autore che l’affascina dall’epoca della sua formazione e che ricorre nel suo lavoro. Al centro di una scarna messa in scena di oggetti una cassa emette la voce dell’artista stessa che legge, quasi fosse un congedo, il testo de “L’ultimo nastro di Krapp”, inframmezzato da frasi scritte da lei stessa e suoni che le appartengono.
È come se Liliana Moro ci restituisse sinesteticamente la poesia del vivere urbano, fatta di oggetti sonori e spaziali, che spesso non sono nobili ma che portano con sé tutta la bellezza della vita reale, delle relazioni e di ciò che ci circonda. Una sorta di Alberto Savinio contemporaneo che ascoltava il cuore della città (chiedendoci di fare lo stesso) di Milano, città in cui Moro non solo è nata e cresciuta ma in cui si muove e lavora. Quella stessa metropoli che si è arricchita lo scorso anno di una sua opera pubblica permanente, “Sundown” (ad ArtiLine, CityLife), e che finalmente a giugno aprirà le porte del PAC - Padiglione d’Arte Contemporanea su questa retrospettiva, prima che venga esposta a New York.
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