- Le sirene sono diventate un simbolo della comunità trans e non binaria. Parlano di un’identità doppia, un’appartenenza ibrida.
- È più che sensato che una storia incentrata sul desiderio di diventare altro intercetti la riscrittura anche di altri stereotipi, come quelli razziali.
- Non è escluso ci possano essere eccessi strumentali o che il capitalismo sfrutti i temi della diversity. Ma tale è il debito che abbiamo verso le forme di umanità escluse e umiliate che un eventuale, momentaneo, sbilanciamento al contrario non ci farà poi così male.
Dopo le ripetute polemiche il live action de La Sirenetta Disney è finalmente arrivato nelle sale. Ho un legame speciale col cartone del 1989: come molti bambini non conformi da piccolo ero ossessionato da Ariel. Immaginavo di essere lei, stringendomi insieme le gambe con coperte e lenzuola, e facendo il bagno nella vasca con la bambola caudata che, dopo tanto penare, ero riuscito a farmi comprare.
La mia anomalia, l’essere categorizzato come maschio nonostante tutto di me dicesse altro, nel corso dell’infanzia ha cercato personaggi (soprattutto femminili) in cui trovare rifugio, e Ariel era uno di questi. È una consapevolezza che mi emoziona: le sirene, oltre a essere figure mitologiche che hanno avuto mille incarnazioni nella storia dell’arte e nella cultura popolare, sono oggi diventate anche un simbolo della comunità trans e non binaria. Parlano di un’identità doppia, un’appartenenza ibrida: care a molte bambine e molti bambini queer, tracciano una storia comune.
Le polemiche nate dalla scelta di far interpretare Ariel da un’attrice nera (Halle Bailey) sono inutili per molti motivi: tra gli altri spicca anche l’ignoranza di questa tradizione segreta, sottotraccia, rispetto alla quale la decisione di coinvolgere un’attrice non bianca diventa una scelta intersezionale, un’alleanza ideale tra immaginari oppressi. È più che sensato che una storia incentrata sul desiderio di diventare altro – rispetto a ciò che la natura sembra aver decretato per noi – intercetti la riscrittura anche di altri stereotipi, come quelli razziali. A lungo abbiamo immaginato i nostri miti e i nostri archetipi attraverso forme e colori più ristretti di quelli che la realtà offre: è giusto ora onorare questa ricchezza rimossa, e spesso perseguitata.
Le nuove sensibilità
Non è raro oggi che le scelte della Disney, in sintonia con le nuove sensibilità in fatto di identità e rappresentazione, suscitino malumori e ondate di indignazione. Le principesse non sono effettivamente più quella di una volta, ma non è, come molti credono, un cambiamento recente. Tutto iniziò proprio nel 1989, con La Sirenetta e il cosiddetto “rinascimento Disney” che da lì prese le mosse.
Il lungometraggio animato ispirato alla fiaba di Andersen fu il primo, grande successo dopo una fase molto difficile per la casa di produzione americana, e fu Ariel a inaugurare un nuovo approccio alla costruzione dei personaggi femminili. Non più ragazze ingenue e sottomesse in attesa di essere salvate dal principe, ma giovani donne intraprendenti e volitive, che, spesso in rottura con la tradizione e la famiglia, andavano a cercarsi il proprio posto nel mondo. Ariel, Belle, Pocahontas, Mulan, Rapunzel, fino ad arrivare a Frozen, manifesto della nuova idea di agency e sorellanza, e Merida di Ribelle.
D’altronde se c’è un genere narrativo legato alla morale e alla pedagogia quello è proprio la fiaba: le storie per i più piccoli hanno sempre veicolato messaggi più o meno edificanti. I film d’animazione di un tempo poi, quei bei classici di una volta che oggi qualcuno rimpiange, non erano affatto neutri: poggiavano anche loro su scelte di valore e preferenze precise, solo che, mancando una riflessione collettiva, quelle scelte agivano indisturbate come “normalità”.
Si considerava fosse normale che tutte le principesse, le streghe e le sirene avessero la pelle bianca, perché il mondo in cui ci muovevamo era più piccolo e inconsapevole. Oggi le cose sono cambiate: le voci del dibattito pubblico si sono enormemente diversificate, e ognuna porta con sé un frammento di mondo in più.
Il debito che abbiamo
È bene che tutto si contamini, che si giochi con modelli e repertori, liberando ciò che troppo a lungo è rimasto blindato nelle strettoie del nostro sguardo inconsapevole. Non è escluso ci possano essere talvolta eccessi strumentali, che il capitalismo sfrutti in maniera superficiale i temi della diversity, creando prodotti creativi che puntino a vincere facile, cavalcando un entusiasmo diffuso, specie tra i più giovani.
Ma tale è il debito che abbiamo verso tutte le forme di umanità umiliate e sistematicamente escluse che un eventuale, momentaneo, sbilanciamento al contrario non ci farà poi così male. Viviamo in un tempo di passaggio: sono sicuro che siamo in tanti a sperare in un mondo in cui una sirena nera non attiri così tanto l’attenzione, ma questa è ancora la fase delle alterazioni che dividono, e forse persino delle occasionali forzature. Questo è ancora il tempo delle sirene afro che, come cartine al tornasole, di colpo rivelano il razzismo più o meno consapevole in noi, la nostra incapacità di immaginare qualcosa di nuovo, di andare oltre i copioni assunti acriticamente.
Anche perché La Sirenetta cara all’infanzia di molti non scompare mica: rimane lì, a portata di streaming. Questo è un altro film, che riprende la voglia di cambiamento centrale già nel cartone del ’89, e la rilancia, innestandola, come sempre l’arte fa, anche quando è pop, nel tempo presente. Un tempo in cui siamo chiamati, forse per la prima volta nella storia, a condividere davvero lo spazio con gli altri. A farci più ampi, e meno nevroticamente ossessionati dall’idea dei confini.
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