- Negli anni dell’adolescenza ci sono stati molti personaggi che ho amato e che usavo come avatar in blog e chat: un modo di sentirsi vicini a personaggi che rappresentano il modo in cui vorremmo essere o le nostre sensazioni
- Perché, allora, ovunque mi girassi, non ne trovavo che mi assomigliassero davvero? Non è che mi sentissi speciale, ma mi sembrava di essere una grande assente nel panorama delle storie a disposizione
- Questo racconto si trova sull’ultimo numero di FINZIONI – il mensile culturale di Domani. Per leggerlo abbonati a questo link o compra una copia in edicola
Quando andavo alle superiori, non leggevo molto: più che altro, mi capitava di leggere quello che mi passava mio fratello, manga o fumetti o anche certi libri con trame che mi sembrava parlassero di me.
Tra questi titoli c’era Lolita, non ne capivo una parola ma mi sentivo figa a raccontare durante i miei appuntamenti che l’avevo letto. Poi 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire, Harry Potter, Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino, Il richiamo della foresta in versione a fumetti della Disney e poi l’originale di Jack London, L’occhio del lupo, Le vergini suicide e Alice nel paese delle meraviglie.
Da Pinky ai manga
Tra i fumetti, oltre ai Topolino sparsi per casa, c’erano I Peanuts, le strisce di Blondie e Dagoberto, Valentina di Crepax (non ho idea del perché avessimo una copia di quel fumetto, che era diverso da tutti gli altri) e poi Spiderman, oltre al Giornalino delle edizioni Paoline. Sul Giornalino, un personaggio in particolare, Pinky, mi sembrava incredibilmente strano già da bambina, poi crescendo ho scoperto che l’autore, Massimo Mattioli, disegnava per Frigidaire personaggi come Joe Galaxy e Squeak the mouse (quest’ultimo probabilmente copiato da Matt Groening per Grattachecca e Fichetto nei The Simpsons). Tra i manga leggevo quasi tutto del collettivo di autrici che si faceva chiamare con l’acronimo CLAMP, poi il più violento Berserk, Angel Sanctuary e Yugi-Oh!. Di Yugi-Oh! facevo anche il gioco con le carte: sono stata campionessa under 14 del campionato regionale siciliano, ma ho mollato dopo aver scoperto il gusto che avevano i cazzi.
Il genere di manga che leggevo di più, comunque, era quello Yaoi, che tratta di amori omosessuali tra uomini, senza lesinare in violenza e dinamiche abusanti. Per come la vedevo io, la trama più o meno era sempre la stessa: ragazzi giovani e belli dai tratti femminei vivevano, in segreto dalla società, rapporti carnali con uomini insospettabilmente gay o bisessuali, che ricordavano molto gli intrecci dei romanzi in stile Harmony, quelli che al mercato editoriale piace definire “letteratura rosa”.
All’inizio degli anni Zero i social erano quasi inesistenti o poco frequentati in Italia ma, in certi forum su internet, trovavo discussioni lunghissime su come il genere manga Yaoi in realtà promuovesse stereotipi di genere contro le donne, che si riconoscevano quasi sempre nella figura del ragazzo giovane e femmineo vessato e manipolato sia fisicamente sia mentalmente dall’uomo più mascolino, di solito più grande d’età.
In quegli stessi forum, però, trovavo discussioni che parlavano di come gli Yaoi in realtà fossero un potente strumento di emancipazione femminile. Alcune ragazze dichiaravano che, leggendo quelle storie, erano riuscite a espiare fantasie che mai avrebbero voluto vivere sui propri corpi, anche se le trovavano comunque eccitanti. Soprattutto nei casi in cui i manga erano scritti e disegnati da donne per altre donne.
Penso che l’unica cosa che accomunava tutte queste letture fosse semplicemente il contesto che mi circondava, quello che trovavo in casa o che scoprivo in fumetteria, in televisione o a scuola (per anni, ad esempio, ho creduto che ascoltare Marylin Manson significasse essere satanista, solo perché me lo aveva detto un compagno di classe di mio fratello). A lungo tutto questo mi andava bene ma, alla fine di ogni pagina, libro o film, premuto il tasto stop, l’unica cosa che rimaneva nella mia mente era il fatto che una come me non si ritrovava mai in nessun personaggio.
In quel periodo, ci sono stati molti personaggi che ho amato e che usavo come avatar nei blog e nelle chat. È una pratica molto comune, tra i ragazzi, sentirsi vicini a personaggi che rappresentano il modo in cui vorrebbero essere, o che sembrano descrivere le sensazioni che stanno vivendo.
In assenza
Perché, allora, ovunque mi girassi, non ne trovavo che mi assomigliassero davvero? Non è che mi sentissi speciale, in verità per nulla, mi sentivo più come una gomma da masticare finita e lasciata sotto al banco, ma mi sembrava di essere una grande assente nel panorama delle storie a disposizione. Sentivo, quindi, che la mia esperienza non poteva diventare un avatar di altre persone, perché nessuno ne aveva mai parlato, e mi chiedevo: se sei assente dalla società tanto da non essere rappresentata, come fai ad essere presente a te stessa?
Televisione, un po’ di internet e videogiochi fanno tutti parte della letteratura che mi ha formata, sono una ragazza degli anni Zero, per me Bugs Bunny è narrativa come lo sono Il Conte di Montecristo o tutti i Final Fantasy che ho giocato in inglese e che mi hanno aiutata ad avere buoni voti a scuola nelle lingue straniere.
Devo molto a quel tempo prezioso perso a divertirmi e a commuovermi sulle storie dei personaggi che mi scorrevano davanti, a portata di joypad. Quel che scrivo e ciò che m’importa deriva anche dall’intrattenimento videoludico.
In Final Fantasy 7, durante una missione Cloud, il protagonista deve vestirsi da donna per superare un ostacolo insieme alle sue compagne di viaggio, poi torna nei suoi panni e quando ci giocavo non mi ha mai sfiorata l’idea che dopo la missione quei vestiti potessero rimanergli addosso, che lui iniziasse a farsi chiamare con un altro nome e a usare pronomi neutri o femminili: in realtà, non immaginavo nemmeno l’esistenza di queste possibilità.
Parodie
Gli unici travestimenti di persone Amab (assigned male at birth) che avevo visto o sentito erano nei cartoni animati e, a volte, in qualche film, dove l’unico intento era mettere in scena la parodia di una donna considerata brutta. Capitava di vedere puntate in cui Bugs Bunny si veste da donna, e il risultato è che quando l’uomo di turno (ricordo un episodio con un cacciatore) scopre che la coniglia che lo attira non è altro che un maschio con abiti femminili, l’episodio si trasforma in tragedia. Erano stereotipi simili che mi allontanavano dall’idea che esistesse la possibilità di fare della propria vita ciò che si vuole, anche cominciando da semplici abiti. Con l’aria che tirava, non mi biasimo se ho impiegato anni a dire che ero una donna transgender.
Da piccola, ho visto una pubblicità che annunciava un programma in cui sarebbe stata raccontata la vita di Vladimir Luxuria, la prima parlamentare transgender in Italia e, se non lo avesse detto la pubblicità, non mi sarei mai accorta che era trans. Quella parola, in più, mi faceva ridere, e non ne sapevo il motivo. Fuori dalla tv o dai videogiochi non era meglio: le prime volte che sono andata in una discoteca apertamente lgbtq+ gli amici con cui ero continuavano a fissare le donne transgender e le offendevano deridendole. Dentro di me non ne sapevo nulla, mi rifiutavo di essere come quelle ragazze ridicolizzate dai miei amici, mi spaventava rischiare di essere associata a quella categoria.
In un’altra occasione, mi trovavo a cena con un’associazione che si occupa di diritti di persone omosessuali e si parlava di una donna transgender lesbica, scherzando sul fatto che avrebbe potuto evitare la transizione, visto il suo interesse per le donne. Le persone a quella cena confondevano completamente i piani tra identità di genere e sessualità, l’unica cosa che io riuscivo a pensare era: non voglio essere così!
Il naso e i traumi
Quando ho rifatto il naso avevo solo 17 anni, un ragazzo era morto e i suoi genitori avevano istituito un bando per una borsa di studio rivolto a tutte le scuole. Ero l’unica del liceo artistico iscritta a quel concorso. Una mattina mi ha convocata la preside per comunicarmi che avevo vinto, una matita mi legava i capelli, avevo dei pantaloncini corti, le Converse rotte e una sciarpa molto larga fuxia, e quando lei mi ha visto ho letto nei suoi occhi lo sguardo di chi non sa come comportarsi: dal registro si aspettava di veder arrivare un ragazzo, ma in quella stanza ero entrata io che ero una frocia persa. Con quei soldi mi sono pagata la rinoplastica e ho passato quindi l’intera estate a guardare film in streaming a casa, con i tamponi nasali, che non mi provocavano alcun fastidio dato che ero abituata all’apnea per i pompini.
Sono sempre stata bisessuale e non ho mai provato vergogna per questo, né ho mai pensato che fosse sbagliato. Avevo avuto le mie esperienze con maschi e femmine, anche molto più grandi di me, e un giorno mi capitò di finire tra le mani di una ragazza che ora definirei ostile. Quando qualcuno maneggia il tuo corpo contro la tua volontà si tratta sempre di stupro ma, a quell’epoca, non avevo incontrato nella mia vita nessun racconto o visione che mi permettesse di interpretare quella situazione. Ho quindi impiegato anni per capire che si trattava di uno stupro, e riconoscerlo come tale.
Dopo lo stupro, le donne non le ho più guardate per anni ma, ovunque mi girassi, la narrazione era sempre la stessa: da persona Amab nessuno mi avrebbe comunque creduto, anche se sei a tutti gli effetti una donna. Ho passato anni tra i sensi di colpa, fino alla terapia che mi ha permesso di accettare ciò che era successo, accettare che ero una vittima. Dovevo uscire da quella narrazione che la società si era preoccupata di affondare dentro al mio io più profondo, fin dalla nascita.
Solo il femminismo intersezionale, anni dopo, mi avrebbe dato il coraggio per raccontare la mia storia attraverso i miei fumetti.
Leggerezza ritrovata
La società oggi ci lascia credere di non poter avere altro amore se non quello che meritiamo, ma se stai male o ti senti da schifo, perché stai a sentire le voci del mondo che ti circonda e che ti fanno sentire uno zero, perdi autostima e resti sentimentalmente affamato. Fino a quando non hai la fortuna di rendertene conto, dovrai accontentarti di briciole per il resto della vita e sarà molto difficile poter uscire da questo stato mentale: è come se fossi bendata e non riesci a trovare l’origine di questo dolore per poterlo curare. Le storie servono anche a questo, a permetterti di vedere fuori dagli schemi e trovare nuove chiavi di lettura per la tua vita, ma qui subentra un altro problema: la disponibilità economica.
Farsi di coca è socialmente quasi più accettato di dire che un’adolescente senza soldi ha formato i suoi gusti visivi anche grazie alla pirateria in streaming, senza la quale non avrebbe potuto accedere a visioni come quelle di Sofia Coppola, Alfred Hitchcock o Stanley Kubrick.
Boy’s don’t cry è stato un cazzotto in pancia, cercavo film a tematica transgender ma non in tutti mi riconoscevo. In Basic instinct, invece, Sharon Stone mi sembrava molto più simile a come mi sentivo, e senza rendermene conto mi venne addirittura la mania di essere bionda. Tra un film e l’altro, mia madre mi cospargeva capelli di lozione schiarente alla camomilla perché di farmeli decolorare non voleva saperne, col risultato che diventai ramata. Vedevo Marnie, Femme fatale, Gioco di donna, Dark city, Blade Runner, la serie tv Popular, Maria Antonietta. Mia sorella in casa non c’era mai, dividevamo la camera e lo stesso letto da quando avevo undici anni, e così veniva a trovarmi il mio migliore amico con il quale macinavo decine di film, con i capelli sempre più ramati e i tamponi al naso. Transamerica, La mia vita in rosa, Je t’aime moi non plus e poi un film indipendente che si chiamava Wild Side, la storia di una relazione poligama di una donna transgender con due uomini bisessuali. Finalmente! mi dicevo.
Sempre nella stessa estate andavo spesso a trovare un’amica con cui passavo i pomeriggi in camera sua a fumare, coi gatti, la musica e i primi social media. Mi faceva ascoltare Le luci della centrale elettrica, i Massimo Volume e gli Acquefrigide, un gruppo punk italiano con la voce di una donna transgender. Mi sentivo più leggera nonostante le continue offese che ricevevo ovunque, prima e dopo la transizione ormonale e chirurgica.
Autoterapia
Ho iniziato a scrivere per autocura. Non avevo mai fatto nulla di simile per me stessa, se non con la pratica del disegno. Ero sicura che, a parte certi personaggi dei manga, film o cartoni che avevo visto fino ad allora, ci potesse essere un altro modo per raccontare in maniera affascinante i corpi transgender.
Nel 2019, con il mio secondo libro, ho fatto coming out pubblico. Mi hanno detto più volte sia che si tratta di una storia anomala, perché in quel libro non racconto scontri drammatici tra me e la mia famiglia a proposito della transizione, sia che la mia storia può essere quella di una qualsiasi adolescente affamata d’amore e di corpi. Avevo centrato il punto. Poi è successo che ho iniziato a vedere i disegni del mio libro come immagini del profilo dei miei follower, e non solo su Instagram, perché si riconoscevano nella protagonista. Ai firmacopie venivano ragazze cisgender per ringraziarmi perché con la mia storia avevo parlato anche di loro, esattamente come io mi sentivo rappresentata dal personaggio di Lux, nel film Le vergini suicide, fregandomene del fatto che non fosse Amab, come lo ero io.
Nel 2019 poi è arrivata la serie americana Euphoria, dove l’attrice Hunter Schafer interpreta uno dei personaggi donna transgender più fighi e interessanti che abbia mai visto o letto. Lady Gaga ha poi scelto dj Arca, per un remix di una sua canzone. Dj Arca è una artista transfemminista che, nella sua musica e con la sua storia, parla di diversità dei corpi come punto di forza e potere. Le ragazze transgender su TikTok scherzano con gli stereotipi, in 15 secondi mettono in scena sketch comici che spazzano via pregiudizi radicati nel tempo. Sembrano piccoli mattoncini, ma ognuno di questi in realtà è fondamentale.
Una volta ero in macchina con papà, mi raccontava di un suo viaggio a Milano quando era giovane. Lui e i suoi amici cercavano un passaggio per tornare all’ostello e stavano per salire in macchina con delle ragazze che li avrebbero accompagnati. Di tutta fretta si era fermato un tassista per caricarli, che, scherzando, sosteneva di averli “salvati” da quelle ragazze che erano, in realtà, uomini: “dei trans”. Il tassista aveva continuato a scherzare, e mio papà mi ha sempre detto che si era sentito frustrato da quella situazione.
Sapevo che prima o poi lo avrei raccontato, e so anche che un giorno, grazie a tutte le voci che si stanno unendo e le nuove storie che racconteremo, non saremo più costretti a sentire battute del genere.
Questo è il testo che Fumettibrutti leggerà all’Istituto Italiano di Cultura di New York per Multipli forti
© Riproduzione riservata