- «Quanta devastazione siamo pronti ad accettare per imporre il bene? Quanta violenza siamo disposti a scatenare perché il bene trionfi?», si chiede Raffaele Alberto Ventura su Domani (24 agosto). Personalmente risponderei: «Neanche un po’ di devastazione e neanche un minimo di violenza».
- Ma allora perché farsi quella domanda? Perché, ci spiega l’autore, c’è un esempio che continua a interpellarci: l’Afghanistan. Un tentativo fallito di “esportare la democrazia”. E subito la discussione si fa concreta.
- Se mi si chiedesse di dare una definizione di ragione, direi che non è una disposizione mentale, ma una disponibilità: a usare responsabilmente il linguaggio, a rendere ragione di ciò che si dice, ma anche di ciò che si fa, e in primo luogo dei propri giudizi di valore.
«Quanta devastazione siamo pronti ad accettare per imporre il bene? Quanta violenza siamo disposti a scatenare perché il bene trionfi?», si chiede Raffaele Alberto Ventura su Domani (24 agosto). Personalmente risponderei: «Neanche un po’ di devastazione e neanche un minimo di violenza», e mi sorprenderebbe se molti altri lettori di questo giornale gli dessero una risposta diversa. Non perché io sia certa che bontà e mitezza prevalgano fra questi lettori, ma perché suppongo che tengano alla logica, o almeno lo spero.
«Imporre il bene» è un vero e proprio ossimoro, cioè qualcosa come un circolo quadrato. Espressioni del genere vanno bene per esprimere paradossi, cioè sfide all’opinione comune che non necessariamente mettono in questione la logica, anche se in certi casi sembrano farlo.
Quello che almeno da Socrate in poi abbiamo imparato, passando da Immanuel Kant, è che senza un libero e avveduto consenso al supposto bene, comunque esso si concreti, questo supposto bene non è bene affatto, ma appunto subìta imposizione e violenza. Tengo ai due aggettivi: libero è il consenso – di più, l’impegno a onorare quel bene – che avrei potuto non dare, avveduto è il consenso che do perché vedo che quel supposto bene è veramente un bene, o almeno ho buone ragioni per crederlo.
La questione dell’Afghanistan
Ma allora perché farsi quella domanda? Perché, ci spiega l’autore, c’è un esempio che continua a interpellarci: l’Afghanistan. Un tentativo fallito di “esportare la democrazia”. E subito la discussione si fa concreta: alcuni, scrive Ventura, sostengono che esportare la democrazia è un dovere, e mi include fra questi pur in ottima compagnia col direttore Stefano Feltri, altri che invece produce necessariamente devastazioni.
Ora, avendo definita “sciagurata” la guerra americana contro l’Afghanistan, potrei anche pensare che ci sia un equivoco e comunque non spetti a me rispondere: però, avendo già notato in una precedente occasione (Domani, 20 agosto) che l’autore è un talentuoso dispensatore di immagini e poesia, vorrei soffermarmi su quella centrale di questo suo intervento, che è la famosa frase di Goya sul “sueño de la razòn” che produce mostri, dove, se si legge “sogno” invece che “sonno”, ne vien fuori proprio la tesi che ho – questa sì – trovato assurda in quell’occasione: che è proprio la “ragione” (identificata con la “sognatrice” dei diritti umani) l’entità colpevole di una serie di orrori, dai crimini coloniali a quelli imperialisti, e immagino molti altri.
Ci arrivo sùbito: ma prima resta da sbrigare la questione dell’«esportare la democrazia». Ecco: a più riprese, e da ultimo in un bell’articolo dedicato (Domani 24 agosto), il direttore di questo giornale ha chiarito che «esportare la democrazia con le bombe non funziona, ma neanche con i fiumi di denaro»: che sono poi due modi di “imporre” un supposto bene. E che l’unica cosa positiva – sostenere e favorire il “Nation building” dove ci sia richiesta e cooperazione – è stata fatta ben poco e ben male, e gli fa eco Antonio Polito sul Corriere (25 agosto). E quindi arrivo alla questione filosofica. Perché tanto spesso uno dice una cosa e molti altri gli (le) attribuiscono una tesi tutta diversa, tanto diversa che non solo non segue dalle cose dette, ma le contraddice? (Non è una questione priva di interesse. È un dito nella piaga della povertà del dibattito pubblico italiano).
Fondarsi sulla ragione
L’immagine della ragione “sognatrice” offre un primo spunto di risposta. Una glossa di Ventura chiarisce che con “ragione” qui non si intende «una particolare facoltà mentale, quella di ordinare i pensieri in modo logico, ma un sistema di valori che gira intorno all’ideale universalistico».
Io per la verità avevo provato a dire proprio l’opposto. Se l’ideale universalistico, per cui ci sono cose dovute agli umani (tutti e in quanto tali, etsi deus non daretur, come diceva Grozio) sta per l’etica (semplifichiamo un po’), allora l’etica non sta in piedi senza la logica. Il pensiero che ci sono cose che ciascuno deve a ogni altro e i governanti ai governati non è un sogno, ma una proposizione che, se l’affermiamo, dobbiamo spiegare perché la riteniamo vera, offrendo a chi la chiede quell’evidenza che riteniamo in principio accessibile a tutti.
Affermarla infatti è affermarla vera: una pretesa che conta come l’espressione di una credenza che si ha (se non siete convinti, chiedetevi perché «Piove, ma non ci credo» è un vero paradosso). Credo si possano portare ottime ragioni a sostegno dell’ideale universalistico: ma non è questo il punto. Il punto è che un’etica «fondata in ragione» (e non sul comando di Dio e del suo rappresentante in terra) è un’etica i cui principi, se li sostengo, non solo non posso imporli (non sono “comandi”) ma devo offrire ragioni a chi li contesta, e in cambio ascoltare le sue. E in entrambi i casi sarà proprio impossibile farlo senza la logica: che non è solo l’arte del ragionare bene, ma, ad esempio, quella di usare i termini in modo coerente.
La responsabilità delle parole
Se ad esempio il mio interlocutore sostiene che l’ideologia dei Talebani è spaventosa «proprio perché oggi aspira ad essere un universalismo», non sta evidentemente usando il termine “universalismo” nel senso dell’ideale, in cui l’ha usato sopra – perché ne verrebbe fuori un controsenso. Insomma: la logica è l’etica del pensiero, quale che ne sia la materia.
Ci sono cose dovute quando si discute, e sono gli argomenti. La logica è la condizione perché quello che si dice possa avere la chance di essere almeno falso, se non vero: cioè di avere un senso concepibile – e dai nostri errori impariamo molto. Ma se non può essere né vero né falso, allora non resta che l’incanto delle immagini, se c’è. La suggestione, che può anche indurre a un’azione: ma non libera e non avveduta. Non responsabile.
La logica è la responsabilità nell’uso delle parole. E non si può neppure dire che sia «una particolare facoltà mentale»: perché semmai è la sua norma. La signora che sogna, è una bella immagine della ragione; un’altra è quella dai bei seni, di Delacroix: che è anche la libertà e si confonde con la Francia. Ma se mi si chiedesse di dare una definizione di ragione, direi che non è una disposizione mentale, ma una disponibilità: a usare responsabilmente il linguaggio, a rendere ragione di ciò che si dice, ma anche di ciò che si fa, e in primo luogo dei propri giudizi di valore, che orientano il nostro agire. Insomma, una disponibilità a parlare e agire razionalmente: ma anche parlare e agire irrazionalmente è una libera scelta. La scelta del sofista, o del retore.
L’inganno borghese
Qualcuno obietterà: va bene, ma quando si ha un ideale poi se ne fa qualcosa, succede agli individui come alle comunità che lo condividono. E la vera questione era questa, se realizzare l’ideale universalistico non comporti devastazioni.
C’è una risposta semplice, e la fornisce lo stesso Ventura: dipende come. «Il compito della nostra generazione – dice – è immaginare un universalismo sostenibile, un progresso non devastatore, una ragione ragionevole». Non potrei essere più d’accordo: anche perché si tratta di una serie di ottime tautologie dove l’aggettivo esplicita il senso del sostantivo.
Se fate la prova del non (un universalismo insostenibile, un progresso devastatore, una ragione irragionevole) ne vien fuori una serie di controsensi. Cosa che mostra quanto assurdo sia imputare al pensiero dei diritti umani (o alla ragion pratica), che di suo non ha mani né capitali, i crimini del colonialismo e dell’imperialismo.
Infatti Marx si limitava a sostenere che erano un inganno borghese. Il costituzionalista di Hitler (Carl Schmitt) aveva invece già adottato questo strano linguaggio, per cui siccome i valori esprimono un “dover essere”, allora sono i valori che sono violenti, perché ciò che deve essere sarà, piaccia o no a chi ne dubita. Preferisco Marx. Almeno lascia capire che ci vuole qualcuno, perché le idee si realizzino almeno in parte.
Sogno o sonno
Decisori, individuali o pubblici (politici). Ma perché poi lasciare intendere che nessun decisore ci ha mai creduto, in questi diritti (“sono un inganno”)? Immagino, perché per lui e il suo maestro Hegel la ragione è la forza, la direzione della storia, e chi “fa” le cose sono potenze impersonali: le classi, il capitalismo, la tecnica. Le convinzioni non contano. Peccato per chi ne fu convinto. Io credo invece che ragione logica e ragione pratica, inseparabili, siano il dono dei vincoli al nostro arbitrio, che liberamente possiamo accogliere: e in primis, il vincolo del vero – il vedere, o almeno provare, a vederci più chiaro.
Ma allora, il male era il sogno o il sonno della ragione? Cosa pensasse Goya non lo so, ma ci sono buone ragioni per pensare che fosse il sonno. Che sia semplicemente più vero.
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