È quel periodo dell’anno in cui mi trovo costretta a venire a patti con gli anni che passano: è la stagione dei festival. Quanti amici hanno procreato negli ultimi dodici mesi? Di quanto è cresciuto il mio fondo pensione? Quante camomille alla melatonina ho bevuto? A quanti concerti non sono andata perché pioveva, avevo sonno o mal di schiena?

Molte domande riaffiorano in questa primavera che non vuole partire, mentre da giorni mi scorrono davanti agli occhi le stories dal Mi Ami, festival milanese a cui ho partecipato in passato, da giovane, ma non quest’anno, giacché quest’anno si è svolto nel fango come un Glastonbury dalla lineup a me sconosciuta, essendo io diventata nel frattempo una vecchia ciabatta.

A strettissimo giro sono partite le stories dal Primavera Sound di Barcellona, dove per anni ho desiderato andare senza potermelo permettere, mentre ora che ho uno stipendio non ne ho voglia. Mentre metà del mio Instagram e alcune amiche strette condividono video di concerti che un tempo mi sarebbe piaciuto vedere, mi scopro a provare un inconfessabile sollievo mentre realizzo che stasera dormirò nel mio letto a un’ora ragionevole.

Libertà

Avere trent’anni significa anche imparare a conoscersi e smetterla di provare ad essere qualcun altro fuori da sé. Nel mio caso significa accettarsi per quello che si è, o almeno per quello che non si è, nello specifico una tipa da festival. Cos’è l’età adulta se non una lunga lista di cose che non siamo più disposti a fare?

Dormire testa-piedi con qualcuno, alloggiare nelle camerate degli ostelli, bere più di un cocktail senza una bottiglia d’acqua a portata di mano, nutrirsi di carboidrati, fare il dritto in aeroporto, avere dei coinquilini sono alcune delle pratiche per cui personalmente mi sento troppo vecchia, un elenco in continuo aggiornamento che mi fa sentire a un passo dalla morte ma anche sempre più libera. Sono momenti di lucidità che arrivano come fulmini a ciel sereno, mentre aspetto che il bagno si liberi in una casa di Hackney dove sono ospite di un mio amico che vive con una ragazza olandese che fa tre docce al giorno e un’altra slovena che detiene il controllo del phon. Cosa lavoro a fare se non per pagarmi gli alberghi e non sfrattare gli amici dai loro letti? Mi chiedo mentre l’olandese finisce l’acqua calda per la giornata.

Con il Primavera il rapporto è più ambiguo, proprio perché a lungo avrei dato un paio di organi interni per essere lì, mentre ora mi ci dovrebbero portare in catene. Chissà qual è l'allucinazione, se il desiderio della me stessa ventenne o l’impantofolimento di oggi. Di sicuro fatico a ricordarmi da dove fosse originata quella smania, ora che devo mettere dei cerotti di Voltaren ogni volta che sto in piedi per più di mezz’ora. Credo che il nucleo del mio dissidio risieda in un problema irrisolvibile: mi piacerebbe vedere i Pulp dal vivo? Certo, ma la verità è che vorrei vederli negli anni Novanta. In mancanza di una macchina del tempo, quantomeno dovrebbero esibirsi vicino a casa mia.

Chiedo dei dispacci dal festival ad alcune amiche che sono a Barcellona, per capire se mi sbaglio. Magari è un idillio, magari mi sto perdendo un’esperienza fondativa della mia esistenza. Loro fanno di tutto per vendermela bene, dopotutto aspettano questo momento dall’anno scorso, dall’ultimo Primavera. Mi mandano foto dalla spiaggia, dai loro pranzi a base di paella. Non male, penso, ma in quanti condividete il bagno di casa? Siamo in cinque, mi rispondono, ma i maschi usano soprattutto la doccia all’aperto. Di nuovo mi attraversa quel piacevole tepore, il sollievo di poter fare la doccia al chiuso e senza fare la fila.

71 minuti è troppo

Nella stessa chat un’amica che ha una figlia di pochi mesi dice di essere invidiosa, e quelle dalla Spagna, per incoraggiarla o reclutarla nella squadra che combatte la negatività portata dalla sottoscritta, le rispondono subito che è pieno di bambini e che hanno conosciuto una bellissima coppia con un’adorabile figlia di quattro anni, che hanno chiamato Vera perché si sono conosciuti lì, al Primavera.

Io intanto continuo la metamorfosi verso Vittorio Feltri e dico che sento la puzza dei loro piedi da Milano, ma le mie amiche cercano ancora di convincermi: non è quel tipo di festival, è molto più fighetto di quanto ti immagini. Alcuni possono addirittura farsi la doccia dentro casa. Quando mi sveglio alle 8 del mattino trovo i loro messaggi della buonanotte di un’ora prima, mentre all’alba tornano verso casa, felici nei loro occhiali scuri.

Mi infastidisco del mio invecchiamento precoce, ma poi vedo le loro stories da un deejay set e mi ricordo che poche cose mi annoiano più delle serate di elettronica. È un’altra scomoda verità che ho trovato il coraggio di condividere solo di recente, facendo un coming out alla festa della Scuola Holden, dove centinaia di editoriali e alcuni scrittori di fama mondiale si dimenavano al suono del computer di Cosmo, mentre io mi esibivo nella mia migliore imitazione di Daria di Mtv. La mia idea di serata elettronica – nel caso qualche club milanese all’ascolto fosse in cerca di un nuovo format per il giovedì sera che non crei conflitti con il vicinato – è la riproduzione integrale di Bad Girls di Donna Summer. Si balla per 71 minuti e alle 11 si va tutti a dormire.

Metto Dim All the Lights e la ballo da sola in salotto. Alla fine della canzone ho il fiatone e mi dico che forse, alla mia età, 71 minuti in pista è un obiettivo un po’ ambizioso. Figuriamoci tre giorni, maledetto Primavera.

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