Un paio di mesi fa sono stato contattato da una nota rivista di architettura: volevano propormi un’intervista. Il classico articolo corredato da belle foto: scrittore raggiunto e immortalato nella sua elegante dimora. Salotto, tende, broccati. Luce vaporosa. Solo che io vivo in una specie di garage con problemi di muffa e i sanitari dai quali, quando piove troppo, torna su acqua: a ogni temporale rischiamo di allagarci. Quarantacinque metri quadrati così stipati di roba da ricordare le case degli accumulatori compulsivi esibite con sgomento a Chi l’ha visto.

Con la famosa rivista ho provato a tergiversare, accampare scuse: hanno insistito, ci tenevano tanto. Sono venuti a conoscermi: un caffè nel bar davanti casa, un giro tra i cosiddetti loft di questo complesso industriale riqualificato, fino al sopralluogo – il più rapido possibile – nell’appartamento che occupo col mio ragazzo. «Allora ci aggiorniamo presto». Da quel giorno sono scomparsi, volatilizzati: come avevo previsto la situazione è improponibile. Lo scenario che avevano in mente era un altro. Possibile che uno scriva romanzi, vinca premi, scriva su importanti giornali, e viva in queste condizioni?

Sono scappato della periferia vergognandomi delle facciate scrostate coi balconi minuscoli, affollati di desolazione: quando mi riaccompagnavano a casa chiedevo sempre di essere lasciato lontano dal cortile, inventando ogni volta lavori in corso e deviazioni, affinché non mi associassero a quella carta d’identità istantanea. Sono scappato da uno di quei quartieri in cui il potere nasconde i poveri, ma Milano alla fine, con grande coerenza, mi ha rimesso al mio posto.

Un loft o una grotta?

Vivo in questa casa da sei anni, col mio ragazzo e i nostri due gatti: lo chiamano “loft” ma è un’unica stanza con un piccolo soppalco in cui, fino a poche settimane fa, pioveva dentro. Anche Tananai stava qui prima di avere successo: ho trovato un’intervista in cui dice di aver vissuto in una grotta (questi appartamenti hanno finestre solo su un lato). Col mio ragazzo passiamo quasi tutto il tempo sullo stesso vecchio divano: io a scrivere da una parte, lui in call su Zoom dall’altra. Nessuno dei due ha una stanza tutta per sé. A me arrivano libri dalle case editrici, da presentare o recensire, lui per lavoro porta a casa scatoloni e valigie: a volte realizzo che il posto in cui siamo sembra un magazzino.

Vorrei che le cose non stessero così, ma non ci sono alternative. Si parla troppo poco di quanto la casa sia il nostro secondo corpo, e quanto sia direttamente collegata alla salute mentale: scandisce la forma dei pensieri, modula il campo d’azione, dice qual è il nostro posto nel mondo, il nostro valore.

Tutto il complesso in cui stiamo – oltre 200 appartamenti che formano una specie di villaggio vacanze – ha uno stesso proprietario: quando abbiamo provato a far presente all’amministrazione i disagi (dobbiamo otturare con stracci e spugne le tubature quando sentiamo che inizia a piovere forte) ci è stato risposto che è un problema anche di altri.

Eterna, precaria giovinezza

Siamo arrivati qui in una situazione di emergenza, ma spostarci adesso è impossibile. Fino ad alcuni anni fa a Milano ce la si poteva cavare anche se instabili, precari: oggi la città è sprofondata in una spirale di speculazione immobiliare sfrenata. Per chi non sta al passo non c’è soluzione. Ora è normalissimo chiedere ottocento euro al mese per una stanza, e mille e sei/settecento per un bilocale. I trilocali, per la maggior parte delle persone che frequento, sono miraggi. Siamo incastrati, storditi, e la forza di reagire è sempre meno: siamo in molti a non avere idea di come sarà il futuro. A Milano è ormai è impossibile pensare di diventare adulti davvero: le condizioni che l’immaginario comune associa (se va bene) alla vita universitaria e (se va male) all’indigenza qui stanno diventando la norma, anche per chi ha quaranta o cinquant’anni e un lavoro ce l’ha.

Per più di un decennio mi sono arrangiato, traslocando, subaffittando, dormendo su materassini gonfiabili: ma quando non hai più vent’anni, hai un compagno, una vita lavorativa intensa, degli animali o dei figli, hai bisogno di spazio e di un ambiente almeno decente, in cui smettere di sentirti stritolato e in balia degli eventi. Tutto questo Milano oggi non lo può più offrire, a meno che non si abbiano entrate straordinarie o una famiglia alle spalle in grado di elargire bonifici o eredità. È surreale, date queste premesse, leggere i dibattiti sulla natalità da far ripartire.

Spinti all’esilio

Da Expo in avanti Milano ha deciso di essere una città “attrattiva”, davvero europea, ovvero di ingraziarsi i grandi flussi finanziari, aumentando in continuo il valore dei suoi immobili e mettendo alla porta molti suoi residenti. È la città che più somiglia ai social, preda com’è di una smania ininterrotta verso l’autorappresentazione e la competizione.

Non potrò mai dimenticare la giornalista di un noto quotidiano che una volta mi ha detto: «Sono venuta a Milano pensando che questo fosse il posto in cui succedono le cose, ma da quando sto qui le cose le vedo da lontano: io non ho la possibilità di fare niente». In passato, quando ho sollevato il tema, tanti mi hanno risposto: se non vi sta bene andate altrove. E non si capisce dove. Come se fosse per tutti possibile, come se fossimo tutti in smart working perenne.

Questa è la mia città (sono nato al Niguarda): è molto diverso lasciare una tappa provvisoria o il luogo a cui si è svolta tutta la tua vita. Quello in cui c’è la tua famiglia, gli amici, tutto ciò che hai scoperto di te. Non potrei neppure tornare in periferia: l’accesso alle case popolari è bloccato e le case private ormai costato tanto anche a trenta o quaranta chilometri dal centro.

Un trasferimento forzato, da che mondo è mondo, è una punizione: sono i condannati che storicamente vengono mandati in esilio. Ma spingere i meno abbienti ad andare via è esattamente il progetto implicito della direzione ultra-performativa che Milano ha intrapreso: una direzione violenta, che gioca con le operazioni di cosmesi sociale, sotto le quali lascia che la disperazione covi senza alcuna prospettiva o sollievo.

Il tema della sicurezza, di cui tanto si parla, è strettamente connesso: Milano rivolge il suo sguardo verso i grattacieli, sempre più alti, eclatanti e internazionali. Ai piedi delle torri e dei mega-condomini, nei margini, il disagio delle vite che non contano si fa sempre più opprimente. E chi decide di rubare, scippare, aggredire – per soldi o per sfogare il senso di minorità –, quasi sempre va a farlo nelle zone centrali.

Enorme rimosso

Siamo in molti a vivere in queste condizioni, ma quello della casa è un tabù: tanti si vergognano di dire che non ce la fanno. Siamo stipati in case carissime e minuscole, spesso indecenti, per le quali, in modo perverso, ci sentiamo ormai pure di dover essere grati. La politica, per incapacità o strategia, non se ne occupa: il dramma abitativo è un enorme rimosso, un tema impronunciabile sia per la destra che per la sinistra.

Parlare di “città inclusiva”, a questo punto, non ha molto senso: è vero, a Milano, da omosessuale, mi sono sentito meno bersaglio mobile rispetto ai cortili in cui sono cresciuto, ma aggravare a tal punto le differenze di classe – lasciando che i diritti siano privilegio di chi ha stipendi esclusivi – polverizza il valore di ogni apertura.

Perché poco conta che tu sia etero, gay, cisgender o trans, se la città in cui vivi giorno dopo giorno ti sussurra nell’orecchio che sei troppo povero per meritartela.

E che non ti resta, dunque, che far finta di niente, studiare meglio le inquadrature per Instagram, così da nascondere i segni dell’umiliazione. E rimandare all’infinito quell’invito a cena nel tuo loculo disgraziato, che finirai per dirottare in ristoranti dai prezzi micidiali. Aspettando che passi, che arrivino, chissà come, chissà da dove, tempi migliori. Sperando non scada, nel frattempo, il contratto dal canone fermo a quattro/cinque anni fa che ancora, a fatica, maledicendo tutto e tutti, riesci a pagare.

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