- Per festeggiare il sessantesimo compleanno della casa editrice Marsilio, La Fenice di Venezia ha messo in scena l’opera Le baruffe di Giorgio Battistelli, tratta da Carlo Goldoni. Non si poteva ideare qualcosa di veramente nuovo?
- A teatro c’era anche il ministro veneziano Renato Brunetta, che ha fatto le ennesime promesse per la città. Ma gli abitanti sono ormai solo cinquantamila, come Scandicci e Battipaglia, e la politica li vuole cacciare.
- L’equivoco della tradizione culturale è considerarla come un giacimento da sfruttare pigramente, invece che un esempio di innovazioni e azzardi inventivi da mettere in pratica anche oggi.
È stata una serata storica, sabato 19 febbraio al teatro La Fenice di Venezia. Si festeggiava il sessantesimo compleanno di Marsilio, splendida casa editrice, che in sei decenni ha pubblicato ottomila libri. Come faccio a rendere in due righe la ricchezza del suo catalogo? Mi limito a qualche esempio scelto con criteri affettivi: i classici di tutte le letterature con i testi a fronte, la collana di saggi sul cinema, i romanzi degli esordienti.
La festa aveva un sottofondo malinconico, perché mancava l’animatore principale della casa editrice, Cesare De Michelis, studioso di letteratura, docente e critico letterario, scomparso quattro anni fa.
Sul palco, per i brevi discorsi celebrativi, c’erano gli attuali dirigenti: la vicepresidente Emanuela Bassetti, che da tanti anni codirige la casa editrice, e l’amministratore delegato Luca De Michelis, figlio di Cesare. Dal 2020 il controllo di Marsilio è passato al gruppo Feltrinelli.
Venezia come Scandicci e Battipaglia
Ha preso la parola anche il ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta, che ha fatto una performance imperdibile: in pochi minuti al microfono è riuscito a vantarsi di avere pubblicato una cospicua quantità degli ottomila titoli di Marsilio; a sentirlo parlare pareva che la casa editrice l’avesse tenuta in piedi lui. In più, ha annunciato che il governo Draghi stanzierà presto molti soldi per Venezia.
Ha pronunciato anche un numero fatale, ben noto qui in città: cinquantamila, che sono gli attuali abitanti superstiti del “centro storico” (con questa espressione – lo dico per chi non è di queste parti – si intende Venezia senza Mestre e Marghera e le isole sparse, cioè soltanto il conglomerato a forma di pesce al centro della laguna veneta): eh sì, siamo rimasti in cinquantamila, un terzo rispetto al dopoguerra; siamo al livello demografico di Scandicci e Battipaglia. Nonostante questo, Brunetta ha parlato di fiducia nel futuro.
Non vi crediamo più
A quel punto, un esagitato è schizzato in piedi dalla platea, si è abbassato la mascherina e gli ha gridato: «Non vi crediamo più! Non vi crediamo più!» Sono stato io. Non è vero. Sono rimasto zitto e buono. Ma dentro mi sentivo ruggire, uno slancio interiore mi spingeva a urlarglielo in faccia. Mi sono trattenuto, anche perché non era proprio il caso di guastare la festa di Marsilio. Eravamo lì per ringraziare gli editori, non per polemizzare con il ministro.
Questo giornale, in particolare con le inchieste di Giovanna Faggionato, sta mostrando l’intreccio di interessi economici e scelte politiche che favoriscono gli affari del sindaco attuale, Luigi Brugnaro.
Vale la pena di leggere anche il recente Privati di Venezia, scritto da Paola Somma (Castelvecchi 2021), per rendersi conto che l’orrore attuale non nasce oggi, è stato preparato da una lunga rincorsa politica. Paola Somma, docente di urbanistica, mette in fila le cessioni, le privatizzazioni, le dismissioni di beni pubblici degli ultimi decenni, che sono state fatte sempre a favore degli straricchi, italiani e stranieri, e mai per dare una chance a chi in città vorrebbe provare a viverci e lavorarci.
Paola Somma documenta come le giunte degli ultimi quarant’anni, di sinistra e di destra, guidate da Massimo Cacciari, Paolo Costa, Giorgio Orsoni e ora da Luigi Brugnaro (e anche durante il commissariamento prefettizio di Vittorio Zappalorto, dopo lo scandalo del Mose che nel 2015 decapitò il governo comunale e regionale) hanno fatto di tutto per svendere, regalare, cedere qualsiasi cosa ad affaristi di ogni genere, di tutto il mondo.
E oltre al danno, la beffa: queste cessioni vengono contrabbandate come elargizioni alla cittadinanza, come “restituzioni” di palazzi, edifici, musei, giardini, comprensori, isole, che i nuovi finti mecenati concedono graziosamente alla comunità: peccato che al contrario, in origine, la cittadinanza ne fosse già proprietaria.
In generale, i pubblici amministratori locali e statali considerano Venezia «una merce trattabile sul mercato da mettere a disposizione degli investitori», dove le deroghe a norme e leggi «sanciscono che quello che è bene per gli investitori, è bene per tutti».
Paola Somma ne ricava un bilancio amarissimo; mettendo in fila i puntini della cronaca, il disegno generale che ne risulta è nitido: una implacabile e sistematica volontà di cacciare definitivamente da Venezia i veneziani a basso e medio reddito.
D’altronde, lo scriveva già Angela Vettese qualche anno fa (in Venezia vive, Il Mulino, 2017): vivere a Venezia? Che pretesa! Sarebbe come sentirsi in diritto di abitare nella city di Londra o nel premier arrondissement di Parigi.
Chi arranca per mettere insieme pranzo e cena nel centro storico veneziano deve deporre qualsiasi illusione, e avere ben chiara una cosa: a capo della città, in comune, in regione, al governo nazionale, da mezzo secolo in qua, e chissà per quanto tempo ancora, abbiamo dei nemici, non dei governanti. Forse non nemici delle pietre e delle acque; ma nemici dei suoi residenti, sì. Abitanti di Venezia, non lo avete ancora capito? Non è che i loro decreti, provvedimenti e delibere siano insufficienti a contrastare il cinismo del mercato: al contrario, lo assecondano volutamente, lo incentivano, perché hanno uno scopo preciso, mandarvi via per sostituirvi con abitanti ricchi, manodopera schiavile, e uno strato di conniventi ipertutelati, fra cui certi professori universitari delle facoltà cittadine di architettura ed economia: Paola Somma mostra come questa classe del cognitariato accademico abbia dato supporto al venezicidio sociale, fornendo alla politica figure autorevoli, sindaci e assessori, competenze e progetti.
E la casa editrice Marsilio (anche questo va detto), pubblicando negli scorsi decenni certi saggi di politica e attualità economica, ha dato spesso man forte alla giustificazione teorica di questa linea, ha supportato con zelo la tendenza al liberismo spregiudicato, spacciandolo prima per un socialismo “laico” e post ideolgico, poi per necessità storica.
L’equivoco della tradizione
La serata di sabato è stata epocale anche per l’opera lirica che veniva data in prima assoluta, e per il tipo di pubblico a cui è stata presentata.
Per celebrare una delle case editrici più importanti d’Italia, che ha fatto della sperimentazione culturale una delle sue ragioni d’essere, la Fenice di Venezia ha scelto un’opera tratta da una commedia di Goldoni.
È vero che la casa editrice Marsilio ha un notevole catalogo di classici, tra cui una vasta edizione commentata delle opere di Carlo Goldoni. Ma è possibile che le nostre più prestigiose istituzioni liriche non sappiano inventarsi qualcosa di veramente nuovo? Che razza di idea di cultura è al potere oggi? Cosa passa nella testa di chi dirige i teatri lirici e di prosa, di chi può disporre dove convogliare le nostre tasse? Quando capiranno che sono chiamati a rispondere alla società, prima ancora che alle istituzioni politiche che li hanno nominati?
In un’intervista contenuta nel libretto di sala, il compositore Giorgio Battistelli riporta quel che il sovrintendente della Fenice, Fortunato Ortombina, gli ha suggerito di persona: «C’è Marsilio da una parte», gli ha detto, «c’è il nostro teatro, c’è Venezia, tutti insieme vogliamo festeggiare Marsilio, pensiamoci insieme, puntiamo su Goldoni». Difficile farsi venire in mente qualcosa di più retrivo. Non vorrei essere frainteso: Goldoni è un gigante, è l’inventore della modernità a teatro, da lui discende tutto, io lo venero. E non mi permetto di giudicare la qualità artistica del risultato visto l’altra sera in scena.
L’opera di Giorgio Battistelli, intitolata Le baruffe, è tratta da Le baruffe chiozzotte di Carlo Goldoni. È stata molto applaudita, e anch’io ho battuto le mani al compositore, alla regia, ai costumi, alla scenografia, alle luci, ai cantanti, al coro, a tutti: bisogna essere comprensivi verso gli artisti che si trovano a vivere nella nostra epoca, sotto queste pesanti cappe istituzionali che gli chiedono di fare certe cose.
Chi fa teatro, a maggior ragione il costosissimo teatro d’opera, deve sottostare alle direttive di un produttore, deve fare i conti con i gestori culturali e politici delle nostre risorse pubbliche. L’equivoco delle «radici culturali locali», della «tradizione», del tenere buoni i governanti di turno con produzioni culturali rassicuranti, portano a questo intorpidimento. Saremo l’epoca che verrà ricordata – anzi, dimenticata – per non aver inventato nulla, per non aver rischiato niente.
Mettiamo pure che lo scopo fosse valorizzare il nostro passato locale, non si poteva comunque azzardare qualcosa di inedito? Che so, commissionare un’opera lirica veramente nuova su Aldo Manuzio, su Marsilio da Padova, su Elena Lucrezia Corner Piscopia, la prima donna laureata del mondo? Per carità, lo so che il grande Goldoni è sempre attuale. Le baruffe chiozzotte parla di donne vessate dai maschi, di lavoratori sfruttati, ha tanti motivi d’interesse. Ma non l’abbiamo scritta noi, non è stata scritta oggi.
La rendita culturale del passato
Uscendo dalla Fenice, dopo lo spettacolo, in cuore provavo una grande pena, e una profonda vergogna culturale come veneziano. «Guardate che non siamo così, noi veneti non siamo fermi a Goldoni, non siamo incapaci di escogitare qualcosa di nuovo!»
Lo dicevo in Campo San Fantin, fuori del teatro, a scrittori e scrittrici, editori ed editrici, giornalisti, responsabili di programmi radiofonici, intellettuali venuti da lontano per il compleanno della casa editrice Marsilio. Sì, perché sabato sera alla Fenice c’era mezza Italia intellettuale e creativa. E di fronte a loro, il teatro lirico della mia città, al di là delle ottime prestazioni di tutti i ruoli artistici, ha messo in scena la sua impotenza a dire una parola nuova, all’altezza del nostro tempo.
Tutti quelli con cui ho parlato erano sconcertati dalla scelta di mettere in musica quel testo: «Un’operazione completamente inutile», «Uno spreco di denaro pubblico», «Una roba senza senso»; erano di questo tenore i commenti che ho raccolto.
È stata una serata storica, perché ha rappresentato in pieno la situazione in cui ci troviamo, è un simbolo di ciò che succede sui palcoscenici del nostro paese, sia musicali che in prosa. Rifacitori, epigoni, esattori di rendite culturali del passato: a Venezia, nel Veneto, in Italia, a questo ci siamo ridotti.
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