Ci sono libri che, una volta letti, lasciano nella mente l’idea sottesa all’ultima proposizione della grande opera filosofica di Ludwig Wittgenstein, il Tractatus logico-philosophicus, che dice esplicitamente che «su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere».

In questa frase, strattonata e citata spesso a sproposito, è racchiuso un significato che va oltre la necessità, in certe occasioni, del silenzio, perché il filosofo viennese in realtà riconosce come l’essere umano, per sua natura dotato della parola, quando costeggia le più profonde sollecitazioni dello spirito deve tacere davanti a ciò di «cui non si può parlare», a ciò che il linguaggio non può possedere.

Usando le parole di uno dei più acuti critici del Novecento, George Steiner, davanti a queste sollecitazioni «la parte migliore della nostra umanità sceglie la pace del silenzio» ed è proprio quello che accade dopo la lettura di Lanark, l’opus magnum dello scrittore e artista scozzese Alasdair Gray, un romanzo, per quanto possa essere riduttivo definirlo così, che ha la profondità dei grandi capolavori del Novecento.

La vicenda dell’autore

Gray, tornato all’onore delle cronache lo scorso anno per il suo Povere creature! da cui è stato tratto il film di Yorgos Lanthimos con protagonista Emma Stone, ha scritto gran parte di Lanark in un periodo di particolari problematiche personali: lui e la moglie vivevano grazie ai sussidi del governo, gli editori in principio non accettarono il primo dei quattro volumi e, in un secondo tempo, si dimostrarono riluttanti nel pubblicare in un’unica soluzione un libro dalle dimensioni poderose proponendogli di separare i quattro volumi in modo da attutire il rischio economico.

«Ma il mio primo matrimonio si era sbriciolato consensualmente e non avevo bisogno di soldi; avevo invece fame di notorietà, quindi rifiutai», ha raccontato Gray e così il libro venne cesellato, rifiutato ancora e infine pubblicato nel 1981.

Da quel momento, chiunque si sia avvicinato al capolavoro di Gray non sarà rimasto immune al fascino di questa storia, alla commistione perfetta di realtà e fantasia, alla sublimazione delle domande che innervano il passaggio umano sulla terra, in poche parole a quanto di più prodigioso possa offrire la letteratura a chi decida di avvicinarsi e assecondare il suo mistero.

Tra l’autofiction e il fantastico

Lanark, che Safarà, illuminato editore che lo aveva già proposto in quattro volumi, adesso pubblica in un’edizione maxi in volume unico con la traduzione di un altro appassionato flâneur della letteratura, Enrico Terrinoni, è un libro dalla struttura articolata che non regala al lettore porte d’accesso immediate con il suo alternarsi tra elementi grotteschi e fantastici e distorte tracce di autofiction, ma una volta che si prende confidenza con la struttura quadripartita (che, per non farsi mancare nulla, parte dal Libro terzo, poi seguono Libro Primo, Libro Secondo, Libro Quarto e un Epilogo, intervallati da interventi dello scrittore come il Prologo, l’Interludio, «per ricordarci che la storia di Thaw esiste all’interno del guscio di Lanark» e il Finale, ovvero, «com’è cresciuto Lanark») si può assistere beati a questo meraviglioso slancio dell’ingegno.

La storia, come suggerisce il sottotitolo, racconta la «vita di un uomo in quattro libri», anche se in realtà la vicenda scorre su due binari paralleli dalle ambientazioni differenti che sono, però, lo specchio di un’unica esistenza. Da un lato c’è Lanark che vive nella cittadina di Unthank, un luogo misterioso che con lo scorrere delle pagine si distacca sempre di più dalla comune città della Scozia che sembra suggerire, perché la luce del sole non splende mai, le persone improvvisamente scompaiono e vengono colpite da malattie misteriose e inclassificabili.

Anche il protagonista finirà affetto dalla “dragonite”, che incrosta gli arti dei malati con «una pelle fredda e lucida di intenso verde scuro», che lo porterà in un ospedale che ricorda i luoghi di costrizione di stampo kafkiano, per l’isolamento dei reclusi e per le pratiche burocratiche interminabili, ma virato verso tinte più horror (i malati senza possibilità di guarigione vengono cucinati e mangiati), fino all’immaginifico finale.

L’alter ego

A questa storia, distopica, grottesca e fantastica, si affianca quella che ha come protagonista Duncan Thaw, Lanark che vive un’altra vita, un giovane pittore sregolato, lanciato in un complesso rapporto con Dio, che pensa di poter trovare nell’arte il senso dell’esistenza e che si muove in una Glasgow reale, sorta di mondo rovesciato dell’Unthank, dove lui, esplicito alter ego dell’autore, esperisce le incertezze e le paure di una generazione (Gray era nato nel 1934) che ha vissuto la distruzione e le incertezze della Seconda Guerra Mondiale.

Il richiamo al Ritratto dell’artista da giovane di James Joyce è pian piano sempre più evidente (Gray ha scritto di come il climax di questo romanzo gli abbia dato la sensazione che «la vita potesse essere gloriosa») e se Gray racconta di quanto l’illuminazione di Stephen Dedalus sia la «più grande forma di sacerdozio», Thaw proprio nel suo corpo a corpo con Dio, ancora mediato dall’arte, vedrà la sua mente incrinarsi per sempre verso la follia, in un percorso distruttivo in cui la vista oltrepassa sé stessa fino ad accecarsi, come accade a un altro pittore, l’indimenticabile protagonista del romanzo di Thomas Bernhard Gelo, Strauch, che nel suo logorroico e isolato agire comprende improvvisamente la miseria dell’esistenza umana rimanendone devastato.

Un’opera dantesca

Lanark è stato definito dalla New York Times Book Review come «la Divina Commedia del cripto-calvinismo anglosassone» e se forse il riferimento al calvinismo funziona per i lettori italiani fino a un certo punto, certamente l’impegnativo parallelo con la Divina Commedia rivela quanto in effetti la maestosa opera di Dante punteggi questa storia: si vedano i magici contrappunti che legano le vicende che si svolgono nei due mondi, con le risposte agli interrogativi e ai vuoti della mente di Lanark che arrivano dalla vita “terrena” di Thaw, la lunga lotta con il divino che occupa la mente dei protagonisti oscurandone la lucidità tanta è la sua potenza, il filtro ironico e dissacrante che ammanta tutto il tono del libro anche nei suoi punti più bui, l’uso della metafora come chiave di interpretazione del mondo («La metafora è uno degli strumenti più essenziali del pensiero. Ma l’illuminazione a volte è tanto brillante da abbagliare anziché rivelare») e le critiche alla società contemporanea che dai simulacri fantastici dell’Unthank trova specchio estremamente reale nel mondo abitato da Thaw, esempio luminoso della capacità dello scrittore scozzese di «ritrarre la lotta dell’individuo contro istituzioni disfunzionali mantenendosi sempre nei duplici termini del personale e del fantastico» come ha scritto Jeff Vandermeer, uno dei maestri della fantascienza contemporanea.

Lanark è un libro imprescindibile per capire, ancora una volta, quanto la grande letteratura, quando si incarna in storie che nascono «da un’esperienza diretta dell’autore, vissuta e trasformata in qualcosa che spicca, solitario e autosufficiente», possa cambiare la nostra esperienza del mondo.


Lanark. Una vita in quattro libri (Safarà 2024, pp. 640, euro 33) è il capolavoro dell’autore scozzese Alisdair Gray, ripubblicato ora in Italia in un unico volume con la traduzione di Enrico Terrinoni

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