Il film del regista Lanthimos che ha vinto il Leone d’oro a Venezia è tratto da un romanzo Alasdair Gray. Una storia che gioca con i limiti della letteratura e affonda le sue radici nell’horror e nel grottesco
Già in Il sacrificio del cervo sacro il regista greco Yorgos Lanthimos aveva scelto una storia dove i corpi nascondevano segreti inspiegabili, appartenenti a un universo poco rassicurante e dominato da forze occulte. Anche in Povere creature!, Leone d’oro alla Mostra di Venezia, Lanthimos si sofferma su questioni simili, prediligendo ancora i misteri che abitano i corpi e la tensione che segna il confine tra la vita e la morte, tra la medicina e la magia, tra il naturale e il mostruoso.
L’ultimo film del regista greco viene da un romanzo del 1992 Poor things (pubblicato adesso da Safarà con la traduzione di Sara Caraffini) di Alasdair Gray, scrittore e grafico britannico già autore dello straordinario Lanark (definito «la Divina commedia del cripto calvinismo anglosassone»), che in questo libro ha costruito una storia che gioca con i limiti della letteratura e affonda le sue radici nell’horror e nel grottesco.
Utilizzando l’espediente del “manoscritto ritrovato”, scegliendo così di posizionarsi sulla scia della tradizione del romanzo storico ma nello stesso tempo rivoluzionandone le forme con una vicenda dove il massimo della precisione è messo al servizio della fantasia, il personaggio Alasdair Gray racconta di aver curato un romanzo dalla storia incredibile, opera di un medico morto nel 1911, Archibald McCandless, intitolato Episodi della gioventù di un funzionario scozzese di salute pubblica.
Manoscritto ritrovato
Il manoscritto narra le vicende di Bella Baxter, una ragazza incinta morta annegata a Glasgow e riportata in vita dal misterioso medico Godwin Baxter, forse anche lui nato da una sperimentazione, che lavora sui corpi per poter generare di nuovo la vita.
Ma il desiderio più profondo di Godwin, creare una donna a lui devota, una madre e un’amante, viene frustrato dallo spirito indomabile di Bella che sposerà McCandless, intesserà relazioni con altri uomini e, soprattutto, non rinuncerà mai alla sua indipendenza, ammantando ogni azione di un vitalismo instancabile.
Questo atteggiamento imprevedibile nasce dall’incontro tra il corpo di Bella e il cervello del bambino che portava in grembo quando è morta, dalla sua bellezza sensuale e dall’innocenza infantile, dalla consapevolezza del proprio corpo e dalla curiosità puerile verso ciò che si scopre per la prima volta, un miscuglio che esplode nelle pagine finali dove Bella riporta la sua versione dei fatti («verità, bellezza e bontà non sono misteriose, sono i fatti più comuni, ovvi ed essenziali della vita, come la luce del sole, l’aria, il pane»).
Il femminismo di Shelley
Si gioca proprio sulle differenze tra la versione di McCandless e quella di Bella la tensione di questo libro: McCandless, che utilizza cliché della letteratura vittoriana («la storia del mio secondo marito puzza certamente di quanto c’era di morboso nel più morboso dei secoli il XIX») e vari spunti romanzeschi («ha reso ancora più strana una storia sufficientemente strana con diavolerie proveniente dai lavori di Mary Shelley ed Edgar Allan Poe»), scrive come un uomo che vuole controllare sua moglie, mentre Bella nella sua versione rivendica la libertà, il piacere sessuale e il coraggio di scegliere dentro un società che rende «la sguattera e la figlia del padrone» accomunate dal fatto che «entrambe vengono usate da altri» e che «non è loro concessa nessuna libertà di scelta».
Nel citazionismo postmoderno di questo libro sembra assumere un ruolo centrale il riferimento a Frankenstein (Godwin appare, tra l’altro, nel cognome di Shelley, Mary Wollstonecraft Godwin) perché in effetti il femminismo di Mary Shelley rivive in Povere creature! dove l’emancipazione di Bella avviene proprio nel momento in cui abbandona gli uomini della sua nuova vita e acquisisce consapevolezza del suo corpo riconoscendo il potere che questo può esercitare.
Da questo punto di vista il libro di Gray è un inno alla liberazione dei sensi, alla riscoperta di una libertà che la civiltà della tecnica ha inesorabilmente sommerso: «Come l’appendice, l’immaginazione è un’eredità lasciataci da un’epoca primitiva, quando contribuiva alla sopravvivenza della nostra specie, ma nelle nazioni scientifiche e industriali moderne costituisce soprattutto una fonte di malattie».
«Adesso, caro lettore, hai due resoconti tra cui scegliere e non ci sono dubbi su quale sia il più plausibile» scrive Bella Baxter condensando il prisma letterario di Gray, abile nel gioco eterno della letteratura. Il lettore infatti dovrebbe credere alla versione di McCandless? O prestare fede alle pagine di Bella Baxter che ridimensionano la storia e ne offrono una versione differente?
Come interpretare, infine, le note di carattere squisitamente storico che Gray aggiunge al termine del libro? Questa è l’espansione della letteratura che opera Gray, il carattere «infinito e infinibile», come scrive Enrico Terrinoni nella prefazione, della sua opera che come un sismografo registra le strade infinite di un tipo di letteratura che assomiglia molto alle occasioni impreviste che costellano l’esistenza umana.
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