Nel 1838, la città tedesca di Wisborg è tormentata da un’epidemia letale, che uccide in poco tempo tra orribili e sfiguranti dolori. Gli stupefacenti progressi delle scienze naturali sono annichiliti da una sconsolata impotenza: non c’è modo di comprendere l’origine del male, né quindi di prenderne le misure. L’umanità sprofonda in terrori atavici e primitivi, che ne ridestano tutte le inclinazioni per il pensiero magico e i suoi parafernali di ritualismi e superstizione. Questo è l’inizio del film Nosferatu, di Friedrich Wilhelm Murnau, proiettato per la prima volta a Berlino il 4 marzo 1922.

Nuovo ed enigmatico

Il film di Murnau apparve sin da subito una novità assoluta quale sintesi estetica e narrativa dell’espressionismo più ispirato, che si lasciava infiltrare da motivi romantici e simbolisti, con i suoi vistosi richiami all’immaginario pittorico di Caspar David Friedrich e Alfred Böcklin. La sua cifra era una studiata e indecifrabile contraddizione, che inviterà gli interpreti futuri alle letture più contrastanti: antesignano del regime nazista, secondo alcuni, stentorea denuncia della marginalizzazione sociale, secondo altri. Non stupisce pertanto che ogni epoca abbia tentato di ricalcarne i passi e riprodurne l’enigmatica indecifrabilità.

Nel 1979 Werner Herzog tributò il suo omaggio a quello che ha sempre ritenuto “il più grande film tedesco”. Convinto che girare un film abbia sempre “a che fare con la propria esistenza”, non volle farne un remake. La pellicola di Herzog è un’incarnazione storica, tipicamente documentaristica, carica di reminiscenze, eppure marcatamente originale in termini di ambientazione, sceneggiatura e repertorio d’immagini – nonché di morale, dacché il male del Nosferatu herzogghiano è più tangibile ed esistenziale. È la nausea duratura di una generazione travolta dal cataclisma psichico e sociale di un paese spontaneamente consegnatosi al nazionalsocialismo, come indica l’iconica scena della piazza in cui si fa bisboccia in un clima collettivo di pura follia.

Ritorno alle origini

Segna invece un ritorno all’origine la più recente declinazione del mito, il Nosferatu di Robert Eggers. Invero, il regista statunitense integra l’opera di Murnau con altre fonti, come il Dracula di Bram Stoker, originale fonte di Murnau, e il film di Tod Browning, che nel 1931 propose un adattamento cinematografico del libro di Stoker. Con questo lavoro di sintesi, Eggers persegue un doppio intento. Da una parte, rende un omaggio scientemente filologico alle atmosfere e all’immaginario delle sue fonti. Dall’altra, ribadisce la convinzione, centrale anche in altri suoi film, che le streghe esistano e che le maledizioni funzionino – insomma, che il male abbia sì una fisionomia morale, ma che la sua radice più profonda sia metafisica.

Eppure, benché scenario, estetica e costumi segnino un ritorno al passato, la nota dominante del film, il suo filo rosso, ne fa un prodotto tipico dei nostri tempi. Il colore rosso, infatti, non è solo facile metafora del sangue, ma anche dell’amore romantico – tormentato e ambivalente, certo, ma proprio per questo romantico. Non a caso, il film apre con l’affresco immaginifico della giovane e presciente Ellen Hutter (Lily-Rose Depp), capace di varcare a piacimento la soglia che separa l’aldiquà dall’aldilà.

Tutto era cominciato quando Ellen, ancora piccola, nelle sue peregrinazioni mistiche, aveva ridestato una forza che non si sarebbe poi fatta riportare a più miti consigli. La giovane aveva liberato dal torpore di un antro dimenticato da Dio e dall’uomo il conte Orlok, alias Nosferatu, vissuto nel quindicesimo secolo in Transilvania e trasformato poi in vampiro da Belial, celebre luogotenente di Satana.

La differenza

Nell’affresco dei due personaggi centrali e delle loro motivazioni personali e morali emerge una netta differenza con il capolavoro di Murnau. Il fulcro tenebroso ed etereo della pellicola originale è il conte Orlok; eppure la sua figura è topesca, dotata di inestetici denti da roditore, del tutto priva dell’allure erotica di cui lo caricheranno i successivi adattamenti.

Il suo fascino rimanda a derivazioni animalesche più che al calore dei corpi congiunti. Benché l’Orlok eggersiano (Bill Skarsgård) tenti di restituire il senso aptico di questa animalità non ripulita, le sue dimensioni imponenti, la sua magnificata potenza sessuale e il richiamo primariamente erotico ne fanno comunque un tombeur de femmes dell’oltretomba.

Si dissolve così il fascino oscuro e incorporeo, dalla potenza infestante, dell’originale Orlok di Murnau, che aveva persino indotto alcuni critici a vedervi rappresentati gli ebrei quali virus letale della comunità tedesca. Nel Nosferatu di Eggers il vampiro è corporeo, malinconico, preda della sua stessa minaccia. Annuncia la prossima sua venuta in chiave di devastazione universale, ma il suo obiettivo più sentito è di vita minima: è un sentimentalista che aspira a conquistare la donna con cui intende congiungersi, anima nera e corpo macilento.

Il vero centro del film è Ellen, in grado di riscattare il proprio errore di gioventù (quando si divertiva a vellicare i demoni) e di mettersi sulla strada compita dell’amore perbene, quello della famiglia tradizionale, con il marito breadwinner e la donna incapace di pensarsi senza lui al suo fianco. Al contempo, la natura più profonda di Ellen non è domabile, e si riaccende puntuale quando perlustra il confine tra il visibile (il mondo di tutti) e l’invisibile (riservato a pochissimi) per incontrarsi segretamente con Orlok.

Il merito indubbio di Eggers è di far sapiente uso della perturbanza di Ellen, senza gravarla con un erotismo facile. Quel che seduce del film non è il corpo della giovane, bensì la sua funzione di terreno in cui i mondi s’incontrano e scontrano.

Rispetto alla Ellen di Murnau, viene meno l’ideale romantico della donna angelica asessuata che si fa oblata e si offre al sacrificio mistico – la donna come essere superiore, affatto irraggiungibile per l’uomo, che si sottomette e che, con tale gesto di sottomissione, dell’uomo disvela il carattere infimo, superficiale, mondano. La Ellen di Eggers è invece foriera dell’ambiguità primordiale (e un po’ noiosa) tra il bene e il male. La giovane riecheggia la tipica domanda della morale tiepida dei giorni nostri, cioè se il male provenga da dentro di noi oppure da qualcosa che sta fuori – e con sé tale interrogativo importa l’illazione che quella separazione netta tra il fuori e il dentro sia il prodotto artefatto di una coscienza perbenista e auto-assolutoria.

Rotocalchi ed epopee

Insomma, Ellen e la sua vicenda sono per Eggers il vettore del dubbio corrosivo sull’integrità della nostra coscienza e sulla tenuta della nostra morale, più borghese che mai. Dubbio a sua volta intensificato da un’altra e più metodica incertezza sulla effettiva capacità delle scienze di restituire un quadro davvero fedele della vita e dei suoi segreti – e se a questi ultimi, piuttosto, non si debba arrivare con una strada più affettiva che cognitiva. Tutti aspetti che conquistano la simpatia di chi scrive.

E tuttavia mi chiedo se, rispetto alla forza mitopoietica dell’originale di Murnau, non si sia perso qualcosa; se il film di Eggers non sia troppo legato all’individualità ordinaria di un amore finito male e del rifugio nella risorsa estrema degli incanti e della magia nera. Storie da rotocalco rosa più che da epopea moderna – le uniche forse che oggi ci possiamo permettere.

Certo, si dirà che quel vitalismo travolgente, nel 1922, sprigionava dalla disperazione di un’umanità consapevole sia di muovere verso la catastrofe sia di non poter fare nulla per impedirla. Ma, dal canto mio, mi chiedo se, rispetto a cento anni fa, oggi semplicemente non manchi quella stessa consapevolezza, dacché di catastrofi e di strade senza uscita ne produciamo una messe. La verità è che il nostro presente non è più capaci di miti, nemmeno quando ne recupera dal passato per rispolverarne la forza magnetica – e allora, godiamoci senza troppi rimorsi un film che sa intrattenere con perizia e gusto.

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