«Su Zoom no, guardi. Sono una frana con la tecnologia». All’altro capo della cornetta sento la voce del filosofo Alain Finkielkraut, nato nel 1949 a Parigi, membro della prestigiosa Académie française e conduttore radiofonico. Stabilita la sua preferenza per il buon vecchio telefono rispetto alla piattaforma di videoconferenza, inizia a raccontarmi come vive il confinamento.

«Pensi che ora conduco il mio programma in uno studio di registrazione vuoto, con gli ospiti a distanza. Il telelavoro è un disastro, perché dissolve la frontiera tra spazio privato e spazio professionale». Eppure i giorni del lockdown sono stati preziosi per lui: «Un irreale momento di immobilità in mezzo a un’epoca irrequieta. Nelle città desolate abbiamo riscoperto il piacere del silenzio». 

Ripensando alle sue molteplici invettive contro il rumore — talvolta associato al rock o al rap — viene da pensare che la pandemia sia stata per lui una temporanea consolazione. «Ma è soltanto una parentesi. Presto le cose torneranno alla normalità. Speriamo almeno che sapremo trarre gli insegnamenti da questa strana esperienza».

Reazionario?

Reazionario, Alain Finkielkraut? Questa reputazione il filosofo francese se l’è attirata a forza di libri ma anche di epiche sfuriate televisive. Da vari anni ormai l’epiteto l’accompagna come un marchio d’infamia, che lo rende inquieto e sospettoso.

«Trascriva con attenzione le mie parole, mi raccomando. Ogni inciampo è un’occasione per attaccarmi». Ma reazionari non si nasce: lo stesso Finkielkraut è stato maoista, per qualche settimana nel 1968, come racconta nel suo ultimo libro In prima persona.Una memoria controcorrente, pubblicato in Italia da Marsilio.

 Nel decennio successivo si è unito alla corrente antitotalitaria dei “nouveaux philosophes” che rompeva definitivamente i ponti con il marxismo, poi ha passato gli anni a regolare i conti con la sinistra su temi come la morale sessuale, l’antisemitismo e la scuola. Ultimamente la sua prima preoccupazione è costituita dall’impatto dell’immigrazione islamica sulla società francese.

«Molti cittadini si sentono come in esilio a casa propria. Bisogna difendere il diritto di ciascuno a non sentirsi minacciato». La Francia ai francesi, come dice il Fronte nazionale? «No: la Francia è di tutti coloro che vivono sul suo territorio se accettano di ricevere la sua eredità, di custodirla, di trasmetterla». 

Illuminismo e romanticismo

Figlio d’immigrati ebrei polacchi, padre sopravvissuto ad Auschwitz, Finkielkraut parla da individuo che ha dovuto in qualche modo costruire la propria identità, negoziare con diverse eredità, abbracciare una tradizione. Ebreo immaginario, dal titolo di uno dei suoi primi libri. Il suo amore per la Francia è innanzitutto amore per una cultura. «I filosofi illuministi hanno difeso l’esistenza di valori universali ma i romantici hanno insegnato loro che nessuno di noi è causa di sé stesso: tutti proveniamo da qualche parte, ad esempio da una lingua. La nostra identità, come moderni, sorge dalla sintesi tra illuminismo e Romanticismo».

Quando il particolarismo non viene stemperato dall’universalismo, si rischiano le derive comunitarie. Ma quando l’universalismo non viene stemperato dal particolarismo, nell’indifferenziazione generalizzata una civiltà rischia di perdere sé stessa.

«Chesterton diceva che il mondo moderno è pieno di antiche virtù cristiane impazzite, come d’altronde dimostra anche l’ultima enciclica di papa Francesco. Ma potremmo dire lo stesso delle virtù democratiche, al cui impazzimento assistiamo ogni giorno. L'uguaglianza è sicuramente un valore, ma oggi serve a negare ogni forma di gerarchia: a scuola quella fondamentale tra maestro e allievo, nella cultura quella tra l’alto e il basso. Tutto ormai è sullo stesso piano».

Ma allora non potremmo dire lo stesso della libertà d’espressione, trasformata in un feticcio dell’universalismo francese attraverso la paradossale sacralizzazione di quelle vignette blasfeme di cui discutiamo ormai da quindici anni? «Non bisogna trasformare le vittime in carnefici e i carnefici in vittime. Rovesciare le cose in questo modo è gravissimo, significa mettersi dalla parte del nemico. C’è chi ha paragonato quelle caricature a quelle antisemite dei nazisti, ma la blasfemia non offende nessun popolo. Sa, la libertà d’espressione non è innocua. Io vengo offeso quotidianamente e quotidianamente ne soffro. Ma accetto questa sofferenza, perché è il prezzo della libertà. L’alternativa è la sottomissione».

La parola non è neutra, poiché evoca il significato letterale di islam. Viene in mente Michel Houellebecq e il suo romanzo Soumission, assieme alla sconfortante constatazione che per molti francesi “nativi” gli islamici di Francia (6 per cento della popolazione totale) costituiscano una minaccia concreta.

«Non possiamo continuare a dare la colpa a noi stessi. La Francia ha impegnato ingenti risorse per garantire l’accoglienza, ma l’integrazione non c’è stata. E invece di assimilare i nuovi arrivati, sono loro che hanno iniziato a convertire gli europei». Ma questo semmai, come mostrava Houellebecq, è un limite nostro. «Indubbiamente c’è una tensione interna verso la dissoluzione».

Nostalgia

All’alba dei settant’anni, Alain Finkielkraut appare ormai sopratutto come un nostalgico. «C’è una spiacevole tendenza a stigmatizzare la nostalgia. Non si accetta che qualcuno osi dire: era meglio prima. Ma possiamo davvero negare che fosse meglio prima? Abbiamo visto sotto i nostri occhi aumentare l’insicurezza, imbruttirsi il mondo, degradarsi il sistema educativo... Abbiamo creduto che la diversità culturale avrebbe reso il mondo migliore e invece cosa abbiamo ottenuto? Oggi a Malmö, la terza città svedese, non c’è più un solo ebreo. La città è judenrein, come dicevano i nazisti. Ecco, io rivendico il diritto di essere nostalgico di un mondo in cui questo era divenuto impensabile».

Più che un antimoderno, per molti aspetti Finkielkraut è un ipermoderno scaraventato in tempi postmoderni, nostalgico prima ancora che della vecchia Francia della vecchia sinistra laica e universalista, al punto da fare il giro completo e ritrovarsi con i conservatori. In Italia un percorso simile lo aveva fatto Oriana Fallaci, in America i cosiddetti neoconservatori. 

Non a caso, proprio come loro, Finkielkraut evoca uno "scontro di civiltà”. Non crede — oso chiedergli — che una società multiculturale come la nostra debba adattare i suoi valori ai nuovi cittadini che accoglie? «Io credo nel valore dell’ospitalità. Ma ospitalità significa dare all’altro ciò che si possiede, non svuotare se stesso per lasciare che l’altro resti ciò che era».

 Eppure — insisto — la Francia è sola a difendere la libertà incondizionata di blasfemia di fronte alla perplessità di osservatori che, dall’Italia agli Stati Uniti, sembrano prediligere un maggiore realismo. «È una cosa che osservo con grande tristezza. La stampa americana è stata più scandalizzata dalle caricature che dagli attentati, ed è deplorevole. Chi collabora con l’islam radicale è come se avesse interiorizzato la fatwa. Se la Francia è sola in questa battaglia allora bisogna prendere atto del fatto che questi valori di libertà non sono universali, ma ci appartengono in quanto francesi. Ce ne faremo una ragione e continueremo a difenderli».

Ma se nel nuovo mondo multiculturale, altamente infiammabile, la Francia fosse invece un anacronismo? «Se la Francia è un anacronismo, allora è un anacronismo prezioso».

Disarmante sincerità

Possiamo non essere d’accordo con le tesi di Finkielkraut e temere che alimentino lo stesso scontro di civiltà che pretendono di denunciare, eppure al termine di un’ora di conversazione colpisce la sua disarmante sincerità. Facendoci partecipare alle sue paure, il filosofo francese espone il suo cuore come una ferita aperta.

La severità con cui guarda al mondo è la medesima con cui guarda sé stesso, e le contraddizioni di cui ci rende partecipe non sono quelle di un uomo isolato, bensì quelle di una nazione intera. La Francia, che da due secoli si era garantita una tribuna d’onore nella storia universale e oggi tenta di risolvere la sua conclamata crisi d’identità rifugiandosi nella nostalgia di un tempo che probabilmente non tornerà più.

Se è vero che l’Europa si è provincializzata, perdendo il suo dominio planetario, come possiamo negare agli esuli del vecchio mondo il diritto alla nostalgia? 

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