Nel suo nuovo libro il filosofo Byung-Chul Han riflette sulla perdita della narrazione come sintomo della crisi. Così abbiamo perso la capacità di creare legami autentici, diventando facili prede per chi vuole sottometterci
La letteratura si basa sulle storie e sulle storie si fonda l’umanità. Dalla Genesi a 1984 di George Orwell, attraverso gli haiku e la flash fiction, la slam poetry e le pièce teatrali, la saga di Harry Potter e quella dell’Amica geniale, l’essere umano vive dentro e fuori le narrazioni. Nelle storie ci riconosciamo, cioè come svela l’etimologia, “conosciamo di nuovo”. Scrivere o leggere qualcosa ci permette, quindi, di conoscere meglio noi stessi e gli altri.
Quando il giovane Antoine Roquentin, il protagonista della Nausea di Jean-Paul Sartre, si scopre indolente nei confronti della vita si ritrova immerso in un profondo senso di alienazione e disgusto verso il mondo circostante. La sua esistenza è vuota, se nulla accade o ha importanza, nulla può essere raccontato agli altri. Il personaggio sartriano non trova una soluzione definitiva alla sua angoscia esistenziale ma l’agnizione avviene comunque: Roquentin decide di diventare uno scrittore per combattere l’eterno ritorno dell’indifferenza e trovare un senso alla sua vita.
Del resto, come scriveva Sartre: «Un uomo è sempre un narratore di storie, vive circondato dalle sue storie e dalle storie altrui, tutto quello che gli capita lo vede attraverso di esse, e cerca di vivere la sua vita come se la raccontasse». Le storie, oggi, si stanno però svuotando di significato e non funzionano più come collante sociale, almeno secondo il filosofo Byung Chul-Han che lancia un nuovo j’accuse alla società capitalista attraverso il suo ultimo libro La crisi della narrazione. Informazione, politica e vita quotidiana (Einaudi, 2024).
In questa crisi narrativa tutto è ridotto a consumo. Vediamo solo ciò che emerge, cioè quello che è premiato dall’algoritmo, il che ci rende ciechi verso altre narrazioni, altri modi di vivere, altre percezioni e realtà. Le storie antiche, quelle del fuoco, erano portatrici di significato, mentre quelle odierne sono svuotate e non creano comunità ma community, composte da consumatori isolati anziché da cittadini.
Le storie sono il nostro «ancoraggio all’essere» e forniscono alla vita «significato, supporto e orientamento» e ora che la narrazione è in crisi, gli umani si trovano allo sbando ad affrontare una nuova barbarie: la «povertà di esperienza» celebrata «come una forma di emancipazione».
La degenerazione della narrazione
Nonostante lo storytelling oggi regni sovrano – tra marketing e pubblicità, media e intrattenimento – attraversiamo una profonda crisi della narrazione che risulta mercificata. L’autenticità e la profondità dei racconti vengono sacrificate sull’altare del marketing. L’uso inflazionistico delle narrazioni tradisce paradossalmente un vuoto narrativo perché le storie si riducono a strumenti per vendere prodotti o servizi, invece di essere veicolo di senso e di unità. Viviamo così immersi in una bolla narrativa, rumorosa e incessante ma che in realtà è priva di significato.
Nell’analizzare questa degenerazione, Byung-Chul torna a criticare i social media dove si commercializza la propria vita in «auto-rappresentazioni pornografiche». Di fronte al vuoto interiore, l’uomo produce incessantemente sé stesso (e lancia ancora una volta una stoccata ai selfie), mancando le occasioni di senso che potrebbero conferirgli un’identità stabile.
Non è solo colpa delle dinamiche narcisistiche, nel mondo digitale e social si procede in modo cumulativo aggiungendo un dato all’altro, tutto il contrario dell’esperienza narrativa che procede in modo selettivo, attraverso la scelta di eventi e informazioni che vengono integrati in un contesto coerente.
Il racconto permette di spiegarsi, a differenza dei dati che per lui equivalgono a una protocollazione superficiale di eventi quantificabili. Il filosofo cita la sfilza di dati che inseriamo sui social come Facebook, titoli di studio, relazioni personali, hobby che slegati da una narrazione sono solo merce da algoritmo.
Il fatto, poi, che le app misurino ogni cosa ci riduce a un cumulo di numeri che, in quanto cifre asettiche, non possono rappresentarci nelle nostre sfaccettature peculiari.
Senza racconto, chi siamo?
La crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo nasce infatti dalla scissione tra vivere e narrare, un atto che ci serve per dare un senso ed è essenziale per sviluppare legami profondi.
Il filosofo non risparmia neppure i media, si «passa da un presente all’altro, da una crisi all’altra, da un problema all’altro» creando storie da vendere. L’informazione, soprattutto quella da clickbait, è diventata additiva e cumulativa, insomma «storyselling». L’eccesso di informazioni ci ha reso ancorati all’istante, meno profondi.
Non abbiamo più a che fare con la fredda oscenità del proibito, del rimosso o del nascosto ma della trasparenza dell’informazione e della comunicazione. L’informazione diventa pornografica perché è un’esposizione cruda e senza filtro, offerta senza alcuna moderazione o riserva, spesso in modo sensazionalistico per attirare l’attenzione e soddisfare una richiesta immediata e superficiale.
Siamo immersi nella «tempesta della contingenza», ben informati ma disorientati e meno empatici perché il continuum di informazioni fa sì che il nostro apparato percettivo sia permanentemente stimolato.
Sottomissione
Viviamo sotto un «dominio smart» che ci impone di comunicare senza sosta, condividere esperienze, emozioni ed opinioni. Un regime seduttivo che si basa sull’autocompiacimento e il compiacimento altrui a colpi di like e oversharing, dove la libertà non viene repressa ma totalmente sfruttata. Crediamo di essere liberi, ma in fondo ci limitiamo a produrre e siamo diventati da tempo gli «organi sessuali del capitale».
L’aspetto costrittivo oggi si nasconde nell’apparenza della comunicazione e della libertà: mentre postiamo o interagiamo ci sottoponiamo volontariamente a questa forma di dominio.
Per spiegarsi meglio Byung-Chul ricorre allo scrittore tedesco Georg Büchner :«Siamo marionette tenute al filo da forze sconosciute», condividiamo spontaneamente dati che ci rendono controllabili. In questa situazione, si diffondono facilmente i racconti populisti, nazionalisti, di estrema destra, inclusi quelli basati sulle teorie del complotto. Racconti che trovano consenso poiché offrono un facile senso di appartenenza e identità, senza promuovere un’autentica coesione sociale.
Per il filosofo anche la politica è intrinsecamente legata alla narrazione. Senza una narrativa che dia senso e contestualizzi le decisioni, rischia di essere ridotta a uno schema semplice di azione e reazione.
Il fuoco attorno al quale gli esseri umani si ritrovavano per raccontare storie si è spento da tempo ma non è tutto perduto. Le storie ci hanno aiutato a sviluppare la capacità di immaginare, ragionare e cooperare, una delle “tecnologie” che ha permesso all’Homo sapiens di evolversi e di diventare la specie dominante sulla Terra.
La digitalizzazione, invece, smaterializza, disincarna e alla fine priva il nostro mondo della sua sostanzialità, eliminando anche i ricordi, che sono narrativi, sostituiti da dati e informazioni, che risultano invece asettici. Nell’èra post-narrativa, occorre recuperare il tempo e il senso perduti attraverso le storie per preservare non solo la nostra unicità individuale ma anche la capacità di costruire unità tra gli esseri umani.
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