Continuo a ricaricare la pagina del pre- pre- pre- accesso alla pre-vendita dei biglietti per i concerti appena annunciati dagli Oasis nel 2025. È una specie di lotteria, infatti si chiama “pre-ballot”, e la pagina mi dice ancora: se non avete ricevuto la mail, la vostra candidatura non è andata a buon fine. Controllo lo spam, anche se sono almeno 10 anni che le email importanti non vanno davvero nello spam. Lo spam è l’equivalente mail del “magari non ti scrive perché è impegnato”.

Ma io controllo comunque: niente, ci sono solo agenzie che promettono di farmi diventare influencer. Eppure ho risposto a tutte le domande: il batterista della formazione iniziale? Tony McCarrol. Quante volte sei stato a un concerto degli Oasis? Molte. Dopo l’undicesima volta che inserisco le mie informazioni personali, do il consenso a ogni comunicazione, inoltro il link a tutti i miei amici, sono le undici di sera e sono in questo stato febbrile da stamattina, finalmente mi fermo.

Mi sono perso qualcosa?

Eccoci, di nuovo a noi, Oasis. O-a-sis. Per quindici anni, non abbiamo osato pronunciare questa parola.

Se pensate che sia “solo” musica, e per di più musica di una band attiva trent’anni fa, vi perdete qualcosa della comprensione del mondo di oggi. Non avete ancora unito i molti puntini che vanno dall’Inghilterra di Blair a Brexit, da Donald Trump a Keir Starmer, e non venite a piangere da me quando l’anno prossimo questi eventi (su cui stasera sto piangendo io) saranno paragonabili all’Eras Tour, e voi con la bolla al naso direte l’equivalente di: «Ma chi è ‘sta Taylor Swift?», e vi chiederete se forse avete smesso di capire la realtà.

Vi direte che va bene così, che non dovete capire tutto, ma un dubbio serpeggerà in voi: mi sono perso qualcosa?

Per ora, quel momento è lontano e voi siete ancora in tempo: gli Oasis, i fratelli che hanno passato quindici anni in una deliziosa faida a mezzo Twitter, interviste, e insulti molto specifici come: potato, hanno riunito la band. Potato: è così che Liam chiama Noel, ma se qualcun altro gli tocca il fratello, diventa il più grande cantautore del mondo.

Di Liam, Noel dice «è l’uomo più rabbioso che possiate incontrare», è uno «con la forchetta in un mondo di zuppa», e una volta gli ha spaccato una chitarra in testa. Deliziosa faida perché divertente, e ci abbiamo creduto perché era vera: non saremmo durati nemmeno noi fan accaniti di fronte a uno squallido spettacolino messo in piedi a scopo di marketing.

No, solo chi ha un fratello o una sorella sa quanto siano effettivamente meschine, infantili, eppure profondamente violente e dolorose le liti fra fratelli. E quanto siano, allo stesso tempo, effimere: si possono risolvere in un attimo, un richiamo a un linguaggio volgare e remoto, un accenno a una stessa antica dinamica tossica, basta che uno dei due dica «giochiamo ancora» e l’altro allora potrebbe dire, come se nulla fosse successo: «Ma sì».

Ma potrebbe dire anche, altezzoso: «Have your people call my people» («parla col mio manager»). Che è quello che successo un paio d’anni fa, quando Liam, il minore, continuava a dire che voleva tornare soprattutto a poter stare nella stessa stanza con suo fratello, a farsi una pinta, prima di parlare della band, e poi da lì le cose sarebbero arrivate da sole.

Come nel 1991, l’inizio di tutto, quando Liam si è unito a una band di sfigati con un nome sfigato e ci ha portato intanto il suo carisma di frontman, e Noel, che suonava la chitarra da tutta la vita – almeno da quando il padre alcolista gliene aveva spaccata una in testa a lui – ha chiesto di sua spontanea volontà di unirsi alla band.

Poi: Oasis come un negozio a Manchester (forse). Un anno di tour in posti piccolissimi e scalcagnati prima di firmare un contratto. Poco tempo per scrivere le tracce, ma poi arriva Live Forever. E la cosa crudele del talento è che uno lo sa quando sta scrivendo una cosa geniale (e anche quando non la sta scrivendo). Live Forever era geniale. Ma anche la foto della copertina dell’album di esordio, scattata nel salotto di casa del chitarrista Bonehead, da Michael Spencer Jones. Anche lo stile effortlessly cool da ragazzi delle case popolari, quello che erano.

Era tutto geniale ed era tutto vero. Non c’è molto scollamento tra lo storytelling e la storia, perché non era tempo di narrazioni, e gli Oasis sarebbero stata l’ultima grande rockband. L’ultima a vendere dischi veri, a drogarsi veramente e a parlare ai lads, ai ragazzi poveri che erano diventati grandi sotto Thatcher, che gli aveva tolto anche la speranza del sussidio.

La gioia del cambiamento

Ed erano incazzati ma sapevano anche che qualcosa stava per cambiare, quindi avevano anche una strana gioia, una gioia da cambiamento di cui adesso si parla molto, dall’altro lato dell’oceano. Gli Oasis sono stati l’ultimo grande prodotto di Cool Britannia, che è quel termine con cui abbiamo sintetizzato una grande verità: dall’Inghilterra sono sempre arrivate nuove idee, ispirazione, spinte creative, nuovi modi di fare le cose, colpi di strafottenza e naturalmente grande nonchalance. E noi li abbiamo sempre ammirati, perfino nelle loro espressioni conservator-snob.

Poi è arrivata Brexit. La prima a mettere in relazione Oasis e Brexit è stata Paola Peduzzi, vicedirettrice del Foglio, esperta di esteri e in particolare appassionata di Europa e Regno Unito, che nel podcast Globo, del Post, a Febbraio 2023, ha spiegato Brexit come «la storia di un’illusione», creata venduta e schiantata, «una bugia, una fantasia», e si auspicava un recupero del senno da parte del Regno Unito (il 57 per cento degli inglesi pensa che Brexit sia stata un disastro) e poi un riavvicinamento all’Unione.

Se tornano insieme gli Oasis torna anche l’Inghilterra, diceva scherzando. Ma un collegamento c’è davvero.

L’anno più importante del millennio è stato il 2016: l’anno di Brexit, ma anche di Donald Trump presidente. Entrambi gli eventi mi hanno spezzato il cuore, e cosa più importante hanno spezzato un collegamento culturale tra noi e UK, tra noi e la cultura americana. Entrambe hanno perso credibilità.

Nel 2016, gli Oasis non esistevano più da un po’, e i fratelli Gallagher avevano carriere soliste di successo – Noel ha continuato a scrivere, meglio di come scriveva alla fine degli Oasis (ascoltate Dead in the water).

Negli ultimi anni però, insieme all’insoddisfazione per Brexit, l’attenzione sui Gallagher aumentava. Certo contava il ritorno in voga degli anni ’90, ma qualcosa era nell’aria: proprio quel senso di incazzatura ottimista, di cambiamento che veicolavano i pezzi degli Oasis. Era come la ricostruzione di un ponte, come se avessero ancora qualcosa da dirci.

Se il riavvicinamento all’Europa non è all’orizzonte, è vero che proprio quest’anno in Gran Bretagna, dopo 14 anni di conservatori, è tornato un governo laburista. In America, proprio quest’anno, siamo di nuovo a Trump candidato presidente, ma abbiamo qualche speranza in più, con una candidata brat (i brat primigeni: gli Oasis), di mandarlo in pensione.

E quante idee allora potrebbero riaprirsi, potrebbero tornare, anche dall’America, in un’era post-populista. Ovviamente la critica culturale non è una scienza esatta. Questi, più che collegamenti veri e propri, sono moti, suggerimenti che la realtà ci dà.

Ma quando milioni di persone si muovono, che sia per intasare i social di meme (tra i più diffusi: con Oasis separati dozzine di primi ministri conservatori che non duravano più di qualche mese; con gli Oasis insieme: Blair e Keir Starmer, un passato glorioso, un futuro un po’ ottimista) o per andare fisicamente a un concerto in un altro stato, di solito dietro c’è qualcosa di interessante, di più interessante del «PIL della regione che aumenta».

Gli Oasis hanno rappresentato un movimento negli anni ’90 e primi 2000, un movimento di ragazzi insoddisfatti, ma pieni di desiderio. Ma gli Oasis rappresentano un movimento anche oggi, non solo una nostalgia. Non capirlo vuol dire perdersi qualcosa, anche di politico, perché cosa c’è di più politico della speranza?

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