Guillermo Esteban Coppola è fra i molti che possono vantarsi di aver inventato il mestiere del procuratore. Per seguire Diego, lasciò gli altri 183 che rappresentava, ma per Diego è stato molto altro, una figura tra Omero e Borges, bugiardo, traditore, dandy, sempre sul filo dell’illecito eppure con una sua etica. La sua vita è diventata una serie tv
La geografia della vita di Guillermo Esteban Coppola parte da Diego Maradona e torna a Diego Maradona. Da anni racconta, sotto forma di parabole, la sua avventurosa esistenza di fianco al calciatore più forte della storia del calcio. E da anni a Coppola viene chiesto di quella volta che a Cuba con Maradona, e di quell’altra che in Russia con Maradona, o di quella notte, pomeriggio, mattina che Maradona: un po’ come da noi nella tivù italiana si chiedevano le barzellette a Gigi Proietti, qualunque cosa facesse l’attore, prima o poi arrivava quel momento, così succede a Coppola che si è inventato la professione d’agente di calciatori, gli sponsor sulle maglie del Boca Juniors e di conseguenza delle altre squadre e un mucchio d’altre cose, ma ormai è l’ombra – bianca – di Maradona, e a lui non dispiace.
Il re del dettaglio
Tanto che da qualche settimana in Argentina, la sua vita col Diego è diventata una serie tv: Coppola, el representante (trasmessa da Star+ e Disney+). E giù interviste e dibattiti, anche perché il paese di Borges che scrisse Finzioni, fatica a capire quelle di Coppola anche se le ama. Un po’ si compiace, un po’ chiama a testimoniare amanti, amici e calciatori per ristabilire verità e giù talk show. Il manager Coppola è una sorta di Omero innestato nel Raymond Queneau di Esercizi di stile, con una vita da Barney Panofsky – quello de La versione di Barney di Mordecai Richler – che per ogni episodio ha almeno 4-5 versioni.
Coppola è il re del dettaglio tanto che, come accade per chi prova a raccontare Maradona, la serie sembra giocare al ribasso rispetto ai racconti e a chi li conosce, nonostante Juan Minujín – l’attore che interpreta Coppola – sia bravissimo nei toni, nella gestualità e nella voce. Ma non basta. Perché l’Argentina è il paese dei paradossi e Coppola è uno di questi. Bugiardo, pirata, traditore, dandy, un po’ cialtrone un po’ signore, sempre sul filo dell’illecito eppure con una sua etica, impossibile non amarlo, soprattutto dopo averlo sentito raccontare qualunque cosa. Gabriel García Márquez disse che «la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla», e Coppola la ricorda e la racconta ogni volta in modo leggermente diverso con qualcosa in più, ogni volta con un dettaglio strabiliante, una frase divertente, con pause e impennate vocali che fanno apparire Alessandro Baricco un dilettante dell’affascinazione televisiva. Ma mentre Baricco deve accontentarsi di raccontare Faulkner o Cormac McCarthy, Coppola ha Maradona e di conseguenza la sua vita in funzione di Maradona, galera compresa.
L’affabulatore
Un mucchio di donne, quattro figlie, partite epiche, il Boca Juniors, la vita precedente nel Banco Federal Argentino, gli studi universitari mentre lavorava e giocava nelle giovanili del Racing, insomma la vita di un uomo che scommette sempre su almeno tre tavoli diversi, e poi l’autoinvestitura come agente di calciatori quando quel lavoro non esisteva, a metà degli anni Settanta, arrivando ad averne 183, lasciati per il solo Maradona, e a questo punto lui parte con il rosario di nomi, ruoli, squadre, vicende, partite, gol. Il primo calciatore fu Vicente Pernía, poi vennero Nery Pumpido, Alberto Tarantini, Reinaldo Merlo, Mario Kempes, Hugo Gatti, Oscar Ruggeri e tanti altri, poi da qua racconta di solito di come per salvare i conti del Boca fu costretto a vedere Ricardo Gareca e Ruggeri al River Plate.
Dietro la narrazione elegante, colta e dolce – capace di cullare e imbambolare chiunque – c’è sua madre che l’ha cresciuto tra favole e ambizioni, tanto che la vita che ha vissuto surfando sul lusso, perdendolo e ritrovandolo davvero come se fosse un’onda, a volte perfetta a volte no, è venuta di conseguenza, e la narrazione si è adeguata a Maradona, anche perché era costretto a mentire, perché la vita esagerata e disperata di Diego non era e non sarà mai adatta al quotidiano del mondo. Maradona è l’Odissea che Coppola riscrive continuamente in una oralità barocca e televisiva, che nella serie tivù viene riassunta con la storia della «Ferrari negra di Maradona».
Napoli e la Ferrari nera
L’incontro con don Enzo Ferrari cambia, si evolve, ha dialoghi differenti – come negli Esercizi di Queneau – viene ristretto e dilatato in base a chi l’ascolta, un racconto «total» che diventa trailer del maradonismo, epilogo del coppolismo, e grande finzione. Tanto che i suoi racconti radiofonici o televisivi sono divisibili in pillole e imperversano sui social, perché solo quello che è divisibile e spalmabile sopravvive oggi. La verità, quando Coppola parla, perde importanza, quello che conta è il tono e soprattutto lo scopo.
Il manager usa le storie per conquistare e le conquiste come storie, in una catena di montaggio romanzesca che affascina e si sovrappone e assolve al compito di opporsi alla morte come solo il cinema. Coppola tiene in vita il mito Maradona, il suo essere un semidio, le sue pazzie in campo e fuori, alla Bombonera o a Napoli dove il manager si muoveva in vespa, annodandosi alla città, adottando una donna che si sporgeva dalla finestra di un basso, trasformandola in una abuela (nonna), adottandola in una inversione di sentimenti e tempo: «Quello che conta è la famiglia». «No, quello che conta è Maradona».
Il Coppola che si fa nipote dell’anima napoletana la dice lunga sulla sua capacità di adattamento, caratteristica che lo aiuterà anche quando finirà in carcere per una accusa ingiusta di narcotraffico, «sono cocainomane, ma non narcos» – tra le parti più riuscite della serie – o quando dovrà affrontare l’assassinio – ancora irrisolto – dell’amico fraterno e re delle notti di Baires: Leopoldo “Poli” Armentano. Perché se per Woody Allen le tragedie più tempo davano la comicità, per Coppola le tragedie più tempo danno il racconto, così le notti brave e assurde di Maradona diventano esempi di un tempo che non tornerà, come le due ore di fuochi d’artificio con conseguente incendio, o i combattimenti a colpi di paintball in un albergo di lusso di Buenos Aires la notte prima della partita di addio al calcio di Maradona.
Ti odio e poi ti amo
«La pelota no se mancha», ma le mura sì macchiarono e tanto. E Coppola per una battuta perderebbe il suo regno e infatti all’avvocato che gli aveva fittato la casa – dopo la devastazione dell’albergo – andata a fuoco, che si lamentava e voleva uccidere lui e Maradona dice: «Mi creda, se avesse visto la casa prima dell’incendio sarebbe stato peggio». Dove il sottotesto è che lui ha salvato il culo di Maradona diverse volte, come a Punta del Este gli salvò la vita, quando ebbe il primo infarto conseguenza di troppa cocaina, e Coppola lo portò in ospedale raccontando una intossicazione e prendendosela con l’ipertensione che affligge gli argentini.
Si giustifica dicendo «Maradona fue el gran amor de mi vida», e Maradona ricambiava, poi no – «ha rubato i soldi del futuro delle mie figlie» – poi sì, e qui parte il racconto del funerale del padre di Maradona, don Diego, dove Coppola viene chiamato a portare la bara, e la maniglia della bara diventa il dettaglio della pace sancita e l’unione per sempre.
Perché Coppola è la memoria. E la sua narrazione non lascia mai niente al caso: le scarpe, i vestiti, la capigliatura, le voci, gli accenti, tutto è vertigine e serve per rendere chiara l’immagine, arricchendo la storia che viene raccontata e raccontata e raccontata, perché non puoi andare da Omero e chiedergli di farla breve.
La serie funziona, avrà sicuramente un seguito, ma nessun attore può sostituirsi a Coppola che racconta, come nessun attore può replicare Maradona che palleggia.
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