Oppenheimer è molto più di un biopic. È il film più politico e appassionante del regista della trilogia su Batman. Uscirà nelle sale italiane solo il 23 agosto, ma si candida a una collezione di Oscar, non solo per il cast stellare
La mela all’arsenico per convenzione è associata al suicidio di Alan Turing, il genio matematico condannato per omosessualità dai tribunali britannici e costretto alla castrazione chimica dopo aver contribuito in modo determinante alla sconfitta della Germania nazista con la sua macchina elettromeccanica, progenitrice del computer, ribattezzata Bomb.
Nel suo stupefacente Oppenheimer, che nelle sale italiane arriverà solo il 23 agosto, Christopher Nolan piazza una mela all’arsenico tra i ricordi di formazione del suo protagonista, J. Robert Oppenheimer, il padre della bomba all’idrogeno.
Vessato da un professore particolarmente uggioso in quel di Cambridge, il giovane fisico americano pensa per un istante di offrirgliela, come nella fiaba di Biancaneve.
Non ho letto American Prometheus: The Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer, la biografia premio Pulitzer di Kai Bird e Martin J. Sherwin da cui il film è tratto. Ma sono pronta a scommettere che la trovata geniale di suggerire un’affinità nelle sorti di due cervelloni che hanno cambiato la storia del Novecento e dell’umanità stessa sia farina del sacco di Nolan, che scrive, dirige e co-produce.
I dettagli subliminali sono la sua specialità, anche quando è alle prese con un’opera big bang che surclassa un ventennio abbondante di cult, da Memento in poi, compresi Dunkirk, Inception e la trilogia del Cavaliere Oscuro.
Molto più di un biopic
Oppenheimer rivoluziona le regole del biopic. Negli Stati Uniti è uscito in contemporanea con Barbie, autorizzando contrazioni goliardiche dei social come Barbienheimer e demenziali fusioni dei due trailer su Internet.
Sul mercato nordamericano Gerwig ha incassato 70 milioni di dollari nel primo giorno di programmazione, Nolan 33, meno della metà. Esito logico, perchè l’impegnativa epica di Nolan sta al blockbuster stilizzato di Gerwig come la portata principale di un menù da chef stellati sta al dessert.
È agli antipodi del pop corn movie, anche se lo spettatore farebbe bene a dotarsi di generi di conforto cui attingere nelle tre ore del film. Tre ore però da vivere col cuore in gola, come un thriller che non è di finzione e ha ricadute dirette sull’èra precaria che tutti sentiamo di vivere in questo momento: non più dopoguerra ma anteguerra.
Per farsi risucchiare dal film basta amare una qualsiasi di queste cose: la meccanica quantistica, i deserti del New Mexico, le responsabilità etiche della scienza e le implicazioni del binomio creazione-distruzione, le infamie delle amministrazioni che governano il mondo e un cast così sbalorditivo che vale la pena di scoprirlo interamente in proprio, cameo dopo cameo. Se ami tutte queste cose insieme, resti ipnotizzato.
Un nuovo mondo
Per sommi capi, la parabola del fisico che nel 1942 fu messo a capo del Manhattan Project è bagaglio di tutti: la costruzione della cittadella-laboratorio top secret di Los Alamos nel New Mexico, il think tank di geni incaricato di bruciare sui tempi gli scienziati di Hitler, il test di Trinity il 15 luglio 1945 e l’ecatombe di Hiroshima e Nagasaki in agosto, quando la Germania è già sconfitta e solo il Giappone resiste, i rimorsi e la predicazione contro la proliferazione nucleare di Oppenheimer nell’America del dopoguerra.
Nolan però toglie il coperchio ai verminai maccartisti degli anni Cinquantae ti spalanca territori oscuri (come il suo Batman). È la maledizione di Prometeo, che rubò il fuoco agli dèi per darlo agli uomini, fu incatenato a una rupe e torturato per l’eternità.
È la citazione dal sanscrito di un antico testo hindu, il Bhavagad Gita (una sezione del Mahabharata) che il fisico avrebbe evocato durante il test vittorioso della sua creatura: «E ora divento morte, il distruttore dei mondi».
È una cesura storica che il premio Nobel Niels Bohr, mentore di Oppenheimer (Kenneth Branagh nel film) condensa in una frase: «Non è un’arma, è un nuovo mondo».
Cast stellare, ma è secondario
Le prove d’attore sono da Oscar, quella di Cillian Murphy – che nel cinema di Nolan ha esordito come Spaventapasseri di Batman Begins – quanto quella di Robert Downey Jr., presidente della Commissione per l’energia atomica e suo nemico implacabile, fino alle cesellature di Gary Oldman, che ti fa odiare per sempre Harry Truman.
Il generale Matt Damon, felicemente invecchiato, sembra la controfigura di Ernest Hemingway. Ma paradossalmente questo è un merito secondario del film.
È impressionante la struttura, che di fatto integra e alterna i processi di fusione e fissione, l’aggregazione degli atomi cioè, in bianco e nero, e la loro esplosiva separazione, a colori. Per raccontare Dunkirk, Nolan scomponeva l’azione in tre sezioni – terra, mare e aria – per ricomporla emotivamente in crescendo.
Questa è la tappa successiva, più complicata da realizzare, perché deve imprimere lo stesso pathos a due storie distinte. Da un lato c’è la controversa creazione della Bomba H, dall’altro le audizioni processuali del dopo, quando Edgar Hoover, manovrato dall’alto, si presta a indagare sulle simpatie comuniste del fisico figlio di ebrei immigrati e il suo rivale Lewis Strauss, protetto da Eisenhower, viene stoppato nella sua escalation politica anche con il voto di un giovane senatore del Massachussets, tale Kennedy.
Adeguandosi alla materia che tratta, il film è concepito per scatenare una reazione a catena di neutroni, pura energia narrativa. La fotografia di Hoyte van Hoytema e la colonna sonora ansiogena di Ludwig Goransson forniscono un contributo notevole, anche se il potenziale visivo andrebbe sfruttato sugli schermi giganti IMAX, come l’autore l’ha girato.
Le mani sporche di sangue
Quella di Nolan resterebbe una strepitosa, dettagliata lezione di storia se non guardasse esplicitamente alla minaccia nucleare che incombe oggi sul pianeta, mai così incombente dai giorni della crisi dei missili a Cuba.
Concepita per combattere la Germania hitleriana, costata tre anni di ricerca e due miliardi di dollari, la creatura di Oppenheimer e della sua squadra segnò di fatto l’inizio della Guerra fredda. In quel triennio il nemico numero uno erano diventati i “rossi” di Stalin, i vecchi alleati.
Nei sogni del fisico la bomba era un mostruoso deterrente per rendere impossibili future guerre, una promessa di pace. Nei suoi cicli di conferenze degli anni Cinquanta, così invisi al governo americano, spiegava che Usa e Urss sono come due scorpioni nella stessa bottiglia. Possono distruggersi a vicenda, ma al costo della propria vita.
Quando Harry Truman, dopo l’apocalisse di Hiroshima, nel film si congratula con l’uomo “che ha riportato i nostri ragazzi a casa”, l’eroe nazionale che di lì a poco sarebbe diventato un bersaglio risponde: «Sento di avere le mani sporche di sangue».
Il presidente gli passa un kleenex e lo congeda schifato: «Non fatemi più vedere quel piagnucolone».
Un film politico
Da intellettuale umanista, appassionato di Picasso e Strawinski, lettore di Eliot e Freud quanto dei tre volumi del Capitale, Oppenheimer non pativa solo, in sintonia con il vecchio Albert Einstein degli anni di Berkeley, lo sterminio giapponese, ma i potenziali stermini che aveva innescato.
Nel suo film più politico da sempre, Christopher Nolan costringe a riflettere sugli arsenali nucleari e sui nuovi poteri precari che hanno scalzato il vecchio ordine mondiale. Ma anche la caccia alle streghe retrospettiva sul filocomunismo del papà dell’atomica diventa metafora del presente.
L’America filo-trumpiana volentieri metterebbe sotto indagine, oggi come ieri, una gloria nazionale rea di aver finanziato le Brigate internazionali della guerra civile spagnola, di avere fratello, cognata ed ex amanti comunisti, di aver partecipato ai tentativi di sindacalizzare gli accademici. E volentieri gli negherebbe anche oggi, come nel 1954, il nulla osta di sicurezza. I film che restano, dopotutto, sono affascinanti incubi ad occhi aperti.
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