«Un alcolista musulmano mi fa sperare che la razza umana possa salvarsi». Bere alcolici nel mondo arabo può essere difficile, spesso rischioso, ma non impossibile. Provare per credere. Un po’ quello che ha fatto Lawrence Osborne nel suo ultimo romanzo edito da Adelphi, Santi e Bevitori, ovvero Un viaggio alcolico in terre astemie, come recita il sottotitolo.

Un reportage culturale e intimo, in cui lo scrittore londinese si immerge per staccarsi da una dipendenza che sembra tenere sotto controllo, almeno fin quando non gli si mette un bicchiere a portata di mano, mai prima delle 18:10.

Osborne non fa niente per negare la sua debolezza, superata per vicissitudini personali e per una presa di consapevolezza (alias, disprezzo) verso l’abuso, ma anzi la affronta a viso aperto scavando nel suo passato familiare, causa ed effetto del suo rapporto con l’alcol.

Per alcuni, i Santi, è un rapporto malsano in quanto non alla pari; per altri, quei Bevitori a cui Osborne rivendica di appartenere con una punta di orgoglio, è un’evasione dalla monotona e noiosa quotidianità: tanto più bisogna allontanarsene, tanti più bicchieri si berranno.

Il diario di bordo nasce da un’esigenza che Osborne sente di dover condividere con i suoi lettori: scoprire cosa ci induce a bere e cosa piuttosto ci frena dal farlo. Per gli occidentali è per lo più una questione di gusto e di piacere, per i musulmani c’è invece una ragione ascetica. L’alcol «altera il normale stato di coscienza, falsando ogni rapporto umano, ogni momento di consapevolezza» incluso il «rapporto con Dio». Motivo per cui chi beve viene considerato nell’Islam un infedele, un miscredente che non ha il controllo di sé.

Perché non è tanto ciò che si beve, ma la smoderatezza con cui lo si fa. Osborne tuttavia non scrive per criticare, bensì per avvicinarsi a una cultura lontanissima da lui che, come spesso accade davanti alle scoperte, lo sorprende piacevolmente. Non solo per lo strappo alla regola di molti musulmani, ma anche per la sobrietà impostagli dalle città che ha visitato.

Tanto da giustificare, o perlomeno comprendere, il proibizionismo religioso nei confronti dell’alcol per i suoi effetti positivi sul suo corpo e sulla sua mente, troppe volte dimenticati nelle serate alcoliche il cui conto si paga l’indomani mattina. «L’hangover, d’altra parte, è complesso», scrive. «È lento, meditativo: ci induce a guardarci dentro e a fare chiarezza».

L’alcol laddove non dovrebbe esserci

L’autore riesce dunque a bere nei paesi a trazione musulmana. Non in tutti, ma nella maggior parte. Costruito su influenze francesi e inglesi e abitato da un insieme di gruppi religiosi (musulmani sciiti, sunniti e drusi; cristiani maroniti, ortodossi e protestanti), il Libano ne è la conferma.

L’arak, il distillato all’anice che si sorseggia anche tra un pasto e l’altro per pulire la bocca, è la bevanda nazionale per eccellenza, ma nel paese si beve la qualunque, anche perché è per il 40 per cento di fede cristiana.

Bar e moschee sorgono fianco a fianco, senza stonature: «Beirut è l’unica città dove il bar e il muezzin non possono avere la meglio l’uno sull’altra». Non lo è nemmeno a Dubai, in quegli Emirati Arabi Uniti che fanno di tutto per mettere a suo agio il turista occidentale, creandogli appositi luoghi dove poter sfogare il suo alcolismo.

Non lo è El Gouna, sulle sponde egiziane che affacciano sul Mar Rosso, cittadina presa d’assalto dagli amanti degli sport acquatici che arrivano da tutto il mondo, desiderosi di bere una volta tornati negli alberghi lussuosi.

Anche la Turchia è un paese tradizionalmente aperto da questo punto di vista. Leggenda vuole che il suo fondatore, Mustafa Kemal Ataturk, sia morto per il troppo raki ingerito. Eppure appena il 6 per cento delle famiglie consuma alcol, forse per via della rivoluzione culturale che il presidente Recep Tayyip Erdogan vorrebbe apportare. La sua convinzione è semplice: «Perché bere vino quando si può mangiare uva?».

Se non si beve è perché lo si nega

Molti più problemi si trovano invece a Mascate, in Oman, dove lo scrittore ha trascorso il primo capodanno senza alcol da quando aveva tredici anni, in compagnia della fidanzata italiana afflitta e disperata per non avere niente da stappare a mezzanotte: «Io a Capodanno pretendo una cosa sola, ed è una bottiglia di champagne». 

Ma Osborne ha capito i vantaggi della lucidità, seppur solamente dopo essersi rassegnato all’idea che altro non potesse fare. A Islamabad, in Pakistan, l’alcol non è vietato, ma solo per quella minoranza di non musulmani.

Chi ignora la legge viene punito, anche con il carcere o con varie frustate, ragion per cui nessuno si avvicina ai bar della città. Per circa un milione di abitanti ce ne sono appena tre, mentre in tutto il paese non più di sessanta: uno ogni 10 milioni di cittadini.

Tanti quanti quelli che bevono alcol, con il 10 per cento di loro che riscontra problemi nel gestirsi trasformando l’alcolismo in una piaga. Il Pakistan nega l’alcol relativamente da poco, solo dal 1977, con scarsi risultati. Illegalmente infatti entra di tutto, soprattutto dalla Cina, come vodka, gin e scotch. Chi non può permetterselo, rimedia con intrugli fatti in casa.

Spesso però finisce male, come successo a inizio anno a quattro tunisini morti intossicati dall’alcol bevuto. In Tunisia è una costante, specialmente nei quartieri più poveri: nel 2020 le vittime da metanolo sono state cinque, una in meno rispetto ai decessi dell’anno successivo per alcol contaminato.

D’altronde ciò che è proibito attrae, niente di strano, ma qui c’è di mezzo la moralità di un individuo. Come emerge da una ricerca del Pew Research Center, la stragrande maggioranza dei paesi islamici ritiene moralmente inaccettabile bere alcol.

Per questo, quando non è possibile farne a meno, si cerca di nascondere la propria dipendenza per paura o per vergogna. Senza però risolvere un problema, l’alcolismo, che non avendo un Dio a cui rispondere comporta danni a qualunque fedele incontri sulla sua strada.

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