Agrobarriera e il forno sociale, recuperando una tradizione quasi dimenticata, sono diventate un presidio del quartiere e un luogo di unione. Uno spazio che annulla le barriere sociali, contrasta le povertà e unisce persone
Nella Torino di metà Ottocento c’era un muro alto tre metri che separava la città dalla campagna. Si chiamava “barriera” ed era composta da porte controllate – poste in corrispondenza delle principali strade di accesso al centro – dove si riscuotevano i dazi. Nei decenni la popolazione oltre il muro posto a nord della città è aumentata perché vivere lì costava meno che acquistare una casa in centro. E così, famiglia dopo famiglia, è nato il quartiere Barriera di Milano.
È stato un agglomerato agricolo e poi operaio, che ha accolto prima molte delle persone che arrivavano dal sud Italia e qualche decennio più tardi gli immigrati dall’estero in cerca di lavoro. Negli anni ha perso la gran parte della sua importanza strategica e industriale: le grandi fabbriche sono state abbandonate, si sono spesso trasformate in luoghi poco sicuri, teatro di microcriminalità ancora oggi in attesa di riconversione.
È stato un quartiere in parte dimenticato, spesso ai margini nonostante disti appena due chilometri da piazza Castello, che vive un conflitto tra la spinta alla riqualificazione urbana e l’alto tasso di insicurezza di alcune vie e piazze. Questo contesto contraddittorio ma ricco di associazionismo ha fatto del cibo e della convivialità elementi di coesione sociale.
Ormai dieci anni fa è nato il primo orto urbano di Agrobarriera, un progetto organizzato dall’associazione Re.Te. ong, nel cuore di Barriera di Milano, in un’area che tutti conoscono come il Boschetto. Qui venti famiglie del quartiere hanno a disposizione una parte di terra in cui coltivano erbe aromatiche, frutta e verdura di stagione. In duemila metri quadrati – a cui se ne aggiungono mille sul tetto della Lidl e alcuni orti collettivi e scolastici – ci sono anziani che trapiantano semi tipici della propria regione di origine, bambini che aiutano le mamme a innaffiare piccoli frutti e papà che zappano.
La terra unisce, che tu sia uomo o donna, italiano o algerina, nel momento in cui ci si trova all’orto sociale le diversità non contano più, ma si lavora fianco a fianco, tra una fila di pomodori e l’altra. «Siamo in un quartiere dove ci sono tanti problemi e tanti tipi di povertà: educative, culturali e alimentari. L’obiettivo è quello di lavorare sulla ricostruzione del tessuto sociale, anche per questo quando c’è il bando per selezionare gli ortisti cerchiamo sempre di creare un gruppo eterogeneo di persone», spiega Giuseppe Deplano, coordinatore del progetto.
Orto e impegno civico
Accanto alla parte di auto-produzione ci sono gli orti collettivi, cioè spazi gestiti e mantenuti da più persone contemporaneamente che coinvolgono anche categorie fragili. E a questi si aggiungono le attività educative e quelle terapeutiche portate avanti in collaborazione con il Serd (servizio per le dipendenze patologiche) e le scuole del quartiere. «In questi anni abbiamo visto che gli orti urbani danno la possibilità di agganciare la comunità e di lavorare insieme su alcuni temi, come quello della sensibilizzazione alla piaga del caporalato o all’acquisto di prodotti etici».
Al centro c’è anche il discorso della sostenibilità, del basso impatto ambientale e del contrasto agli sprechi. Al parco dell’Arrivore, situato all’estremo nord della città, è stato avviato lo scorso anno un progetto di lombricoltura in collaborazione con l’associazione Eco delle città. È connesso all’attività degli ortisti e mira a riutilizzare gli sfalci degli orti e gli scarti alimentari per farne compost.
«Abbiamo un impianto di dieci metri quadrati dove i lombrichi mangiano e producono humus che poi viene utilizzato negli orti urbani. Un processo di compostaggio normale ci impiega sei mesi, i lombrichi invece lo fanno in appena dodici ore. È un progetto interessante che aiuta a gestire meglio gli scarti urbani e a trasformarli in energia».
Collegato al tema degli sprechi c’è l’aspetto alimentare e nutrizionale. «Agrobarriera vuole essere uno spazio in cui le persone possono avere la possibilità di fare un pranzo o una cena insieme, vivendo momenti di convivialità. Abbiamo visto che mettere in contatto gli abitanti di Barriera tra loro utilizzando il cibo funziona tantissimo. Ma a questo si aggiunge un altro ragionamento incentrato sul fatto che è importante garantire il diritto a una sana alimentazione anche in periferia». Nei quartieri con più difficoltà la possibilità di avere sempre cibo buono, fresco e sano a tavola, infatti, non è scontata.
Pane e socialità
Per raggiungere questo obiettivo, al progetto Agrobarriera si è unito il forno sociale S.p.i.g.a., inaugurato a settembre sempre nello spazio del Boschetto. «È stato un processo molto lungo – continua Deplano – tutto è nato quando, nel 2017, avevamo tenuto un corso molto informale di panificazione con gli ortolani.
In quell’occasione era emerso tra loro il desiderio di creare un forno. Il progetto poi si è concretizzato nelle settimane precedenti alla prima ondata di Covid-19, grazie alla vincita del concorso Bottom up di Fondazione per l’architettura Torino e di una somma di denaro per finanziare l’idea. Di mezzo c’è stata la pandemia, poi iter burocratici da risolvere. Ma finalmente ce l’abbiamo fatta».
Tra un mese il forno riprenderà la sua attività con l’accensione inizialmente una volta ogni trenta giorni, anche se l’obiettivo è quello di metterlo in funzione almeno una volta a settimana. E, dato che non tutti sanno fare il pane e la pizza, in programma ci sono corsi di panificazione per prepararli a casa e portarli a cuocere al forno sociale.
Una volta cotti, il Boschetto offre lo spazio per mangiare insieme la focaccia croccante ancora calda, trasformandosi da panetteria a luogo di convivialità in cui condividere un pranzo o una cena. I panificati saranno preparati con le farine delle filiere cerealicole del territorio prodotte in modo etico e a pochi chilometri dal capoluogo piemontese. E ai frequentatori del forno sarà anche dato il lievito madre.
Vecchie tradizioni
Quella del forno di comunità non è un’idea recente. Negli anni Cinquanta tutte le borgate e i piccoli paesi ne avevano uno posizionato nel cuore dell’abitato, era a disposizione di tutte le famiglie che, utilizzandolo insieme, risparmiavano sul consumo della legna.
Davanti al calore del fuoco e alla polvere lasciata dalla farina si creavano le comunità, tra scambi di ricette e qualche biscotto. Con l’urbanizzazione e lo spostamento dei centri abitati dalle montagne alle città, molti di quei forni sono stati abbandonati e hanno perso la loro funzione di aggregatori sociali.
Agrobarriera e il forno sociale, recuperando una tradizione quasi dimenticata, diventano così un presidio del quartiere e un luogo di unione. Uno spazio che annulla le barriere sociali, contrasta le povertà e unisce persone che, con un annaffiatoio o una fetta di torta in mano, vogliono riprendersi il territorio, contrastare l’esclusione sociale e dire alla città che ci sono anche loro. Che Barriera di Milano non deve essere dimenticata.
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