Bergoglio è l’ultimo papa o lo è stato Benedetto XVI? La domanda, che può apparire bizzarra, è stata posta nel 2016 a Joseph Ratzinger. Tutto nasce dalla profezia di san Malachia: attribuita a un monaco irlandese medievale vescovo di Armagh, in realtà fu scritta quasi sicuramente nel 1590 per favorire in conclave un cardinale (che non venne eletto). Il testo – una serie di motti in latino allusivi a oltre un centinaio di pontefici – è dunque un falso, che iniziò a diffondersi quando venne stampato per la prima volta a Venezia nel 1595 e da allora si ripresenta periodicamente.

La risposta di Ratzinger 

Al di là delle difficoltà di adattare i brevissimi testi ai singoli papi, dopo la definizione di Benedetto XVI come «gloria dell’olivo» l’elenco si conclude con una descrizione della fine del mondo: «Nella persecuzione ultima della santa chiesa romana siederà un Pietro romano che pascerà le pecore in molte tribolazioni; trascorse le quali la città dei setti colli rovinerà e il giudice tremendo giudicherà il suo popolo».

Alla «gloria dell’olivo» non seguirebbe dunque un altro pontefice perché nella serie non vi sono altri motti e la conclusione della profezia alluderebbe a un successore dell’apostolo Pietro (romano?) in un tempo che non viene precisato. In ogni caso a Francesco non sembra in alcun modo attagliarsi il cenno a questo Petrus Romanus, mentre nella successione della serie il motto de gloria olivae corrisponde senz’altro a Benedetto XVI, anche se in modo generico e suscettibile di diverse interpretazioni.

Di questa profezia a sorpresa parlò proprio Ratzinger tre anni dopo la sua rinuncia, peraltro in risposta a un’esplicita domanda di Peter Seewald. Nella conclusione del libro intervista intitolato Ultime conversazioni Benedetto XVI confermava la previsione che, giovane teologo, aveva avanzato già negli anni Cinquanta del secolo scorso: «La società occidentale, quindi in ogni caso in Europa, non sarà una società cristiana e, a maggior ragione, i credenti dovranno sforzarsi di continuare a plasmare e sostenere la coscienza dei valori e della vita».

Ratzinger parlava poi di sé con una matura consapevolezza del tempo vissuto e del futuro: «Io non appartengo più al vecchio mondo, ma quello nuovo in realtà non è ancora incominciato»; nemmeno con il pontificato del suo successore, faceva intendere il teologo che aveva lasciato il papato da oltre tre anni. Seewald gli chiedeva ancora – evocando l’elenco attribuito a san Malachia – se fosse lui «effettivamente l’ultimo a rappresentare la figura del papa come l’abbiamo conosciuto finora».

Alla domanda Benedetto XVI rispondeva senza esitare, parlando con ironia anche del testo in questione: «Tutto può essere. Probabilmente questa profezia è nata nei circoli intorno a Filippo Neri. A quell’epoca i protestanti sostenevano che il papato fosse finito, e lui voleva solo dimostrare, con una lista lunghissima di papi, che invece non era così. Non per questo, però, si deve dedurre che finirà davvero. Piuttosto che la sua lista non era ancora abbastanza lunga!».

Nodi irrisolti

Dalle riflessioni del vecchio papa nasce questo libro che racconta, scegliendo alcuni temi e momenti, la lunghissima transizione attraversata dalla chiesa di Roma, a partire dagli assetti dell’Antico regime fino ad arrivare al papato che da quasi mezzo secolo non è più italiano: una circostanza che non si ripeteva dal settantennio in cui ad Avignone si succedettero ben sette papi francesi. E dal 1978 i tre ultimi pontificati, senza dubbio innovativi per molti aspetti, si sono invece dimostrati insufficienti nella gestione del governo centrale della chiesa.

L’elezione di Wojtyła, poi di Ratzinger e infine di Bergoglio è certo una conseguenza della mondializzazione del collegio cardinalizio – avviata, con un’improvvisa accelerazione, da Pio XII nel 1946, non a caso pochi mesi dopo la conclusione della seconda guerra mondiale – ma anche del concilio Vaticano II, un’assise davvero planetaria, e del nuovo impulso impresso al cattolicesimo da Roncalli, che convocò l’assemblea, ma soprattutto da Montini, che la governò e la concluse.

E si deve ricordare un dettaglio che certo non è solo biografico: in veste di teologo, Ratzinger è stato l’ultimo papa ad avere partecipato al concilio, che non ha mai rinnegato nonostante tenaci stereotipi che vorrebbero il contrario.

Come conferma l’introduzione ai suoi scritti conciliari – riediti nell’opera omnia – dove il papa ricordava l’apertura del Vaticano II avvenuta cinquant’anni prima: «Il cristianesimo, che aveva costruito e plasmato il mondo occidentale, sembrava perdere sempre più la sua forza efficace. Appariva essere diventato stanco e sembrava che il futuro venisse determinato da altri poteri spirituali. La percezione di questa perdita del presente da parte del cristianesimo e del compito che ne conseguiva era ben riassunta dalla parola “aggiornamento”. Il cristianesimo deve stare nel presente per potere dare forma al futuro».

Questo libro evoca all’inizio, come scenari generali, temi di lungo periodo: la preghiera, l’incombere del male, l’importanza centrale della sessualità, il significato del celibato, la ricorrenza di sinodi e concili, l’esaurimento della committenza artistica religiosa. Seguendo un andamento cronologico di massima, è poi presentata l’origine di alcune tendenze nate come risposte alle rivoluzioni dell’età moderna.

Ma queste tendenze si sono rivelate importanti nella configurazione dell’assolutismo papale, al suo apogeo un secolo e mezzo dopo la definizione dell’infallibilità pontificia da parte del concilio Vaticano I. Nell’ultimo mezzo secolo, i nodi del potere temporale e del governo si sono poi intrecciati con ricorrenti difficoltà: il rapporto con il denaro e la finanza, la comunicazione, il rilancio della problematica santità papale.

Il nuovo mondo è lontano

Per quanto riguarda Ratzinger spicca il non comune contributo teologico che lo colloca in una categoria quasi per nulla rappresentata nella storia del papato e in una posizione di assoluto rilievo, come mostrano le sue riflessioni sulle realtà ultime e sull’ebraismo. Lucida è stata anche la diagnosi del papa a proposito dell’estinguersi della fede nei deserti di questo mondo e dello scandalo intollerabile degli abusi. Debole e per nulla sostenuto – se non addirittura contrastato da collaboratori che si sono rivelati non all’altezza del pontefice o anche infedeli – è stato invece il suo governo.

Irrisolto risulta il pontificato di Bergoglio, caratterizzato da una decisa e necessaria volontà riformatrice e da un’ulteriore spinta alla mondializzazione del collegio cardinalizio. Ma l’inclinazione politica, la gestione personale e solitaria del governo – con modalità autocratiche che non hanno precedenti in età contemporanea – e alcune scelte che sembrano accentuare le divisioni e le polarizzazioni, peraltro già presenti nella chiesa, dovrebbero rendere urgente una riflessione sull’esercizio del potere papale e della collegialità episcopale.

Mentre dunque tramonta il «vecchio mondo» e ancora non è iniziato «quello nuovo» di cui parlava Ratzinger, resta per il momento senza risposta l’interrogativo sull’ultimo papa.


Anticipiamo per intero la prefazione del libro di Giovanni Maria Vian intitolato L’ultimo papa (pagine 227, euro 19) che l’editrice veneziana Marcianum Press ha appena mandato in libreria. La narrazione, rielaborata sulla base di una serie di articoli in gran parte pubblicati su Domani, ricostruisce le vicende del papato in età contemporanea e analizza soprattutto i pontificati di Ratzinger e di Bergoglio. Storico e giornalista, l’autore ha insegnato per un trentennio filologia patristica alla Sapienza e dal 2007 al 2018 è stato direttore dell’Osservatore Romano.

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