Secondo diverse fonti questa settimana Papa Francesco, intervenendo all’assemblea generale della Cei, avrebbe chiesto esplicitamente ai vescovi di discriminare i seminaristi gay, non ammettendoli al sacerdozio, perché – queste le parole che avrebbe usato –, «c’è già troppa frociaggine in giro». La frase sta scatenando una valanga di reazioni, indignate e umoristiche, ma il punto è che, di per sé, è vera: la Chiesa è storicamente il rifugio “scelto” da molti ragazzi omosessuali terrorizzati all’idea di vivere qui fuori nel mondo con tutta la vergogna e la paura che questo comporterebbe.

C’è un’ampia letteratura sul tema, ormai quasi un luogo comune: già solo la rete, negli anni, ci ha abituati a video virali in cui religiosi trasformano messe o cerimonie in veri e propri musical queer.

Da adolescente la mia educazione sessuale si è svolta prevalentemente nelle chat e sui siti d’incontri, dove era facile essere contattati da preti desiderosi di approcci virtuali o reali, che proponevano amplessi in webcam o appuntamenti dal vivo. Il mio primo libro, un romanzo di formazione omosessuale, è stato apprezzato anche da tanti preti che mi hanno scritto messaggi, invitato per presentazioni e raccontato, in qualche caso, questa loro complicata doppia appartenenza.

La Chiesa è davvero uno scudo, un rimedio, un nascondiglio, specie per chi nasce lontano dalle grandi città, e vive la propria omosessualità come un fardello ingestibile, uno stigma da occultare il più presto possibile in quella zona franca che sa mettere a tacere le minacce e i pericoli.

È una situazione tragica, che personalmente trovo soprattutto dolorosa, anche perché spacca in modo subdolo la comunità Lgbt, che può essere vista quasi in lotta contro sé stessa. C’è una parte della comunità che sceglie la visibilità e rimane nel mondo e un’altra che tradizionalmente sente di non essere abbastanza forte o coraggiosa per farlo, e cerca strategie di sopravvivenza nella vita religiosa.

L’altro lato della medaglia

In tutto ciò le scomposte parole di Bergoglio vedono solo un lato della medaglia: rilevare solo l’effettiva alta concentrazione di omosessuali, e non le premesse da cui questa dinamica discende, è ingiusto e a suo modo spietato.

Papa Francesco si è dimostrato ancora una volta in linea con l’intonazione etica di tutta quella parte politica – Meloni, Salvini, Roccella, Vannacci – che accetta volentieri di perpetuare e aggravare lo stato di clandestinità civile e il dolore degli oppressi, per fomentare la confusione degli intolleranti e accaparrarsi più voti, poltrone e denaro.

Al posto che rilevare l’omofobia ancora dilagante nel paese, e immaginare strade che portino la Chiesa ad assumere un ruolo di liberazione e protezione anche verso i cattolici omosessuali, il pontefice ha preferito ribadire una visione reazionaria e dunque oppressiva.

Qualcuno sostiene che l’intento di Bergoglio fosse quello di arginare la piaga della pedofilia, il che aggiungerebbe ulteriori punti critici, come il fatto di correlare gli omosessuali (e solo loro) agli abusi sui minori e di non ammettere il problema del celibato, ovvero dell’astinenza sessuale obbligatoria, notevole limite alla salute psico-sessuale del clero.

È importante sottolineare con forza la povertà di risorse, e le contraddizioni, di un sistema di potere che è ancora fin troppo rilevante per la politica e l’orientamento etico di chi legifera oggi in Italia: le trasformazioni che i sovranisti al governo stanno cercando di imporci – in materia di diritti della donna, famiglia, visione della sessualità e delle relazioni – discendono ancora da qui, si avvalgono di questi schemi di pensiero.

Sono approcci che rinunciano alla razionalità, al parere della scienza, e al rispetto degli individui, onorando un principio di autorità fuori dal tempo, che si impone sul desiderio concreto degli esseri umani in nome di interpretazioni retrograde e unilaterali, che possono e devono essere aggiornate alla contemporaneità.

Lo scenario sarebbe grottesco, ridicolo, se non fosse armato, se non avesse, purtroppo, il potere di stritolare vite, umiliandone le potenzialità e il valore.

Se lasciassi parlare il me di qualche anno fa non esiterei a definire blasfemo e contrario al cuore dell’insegnamento di Cristo tutto ciò: con la relativa compostezza dei miei trentott’anni, e da persona non atea, mi limito ad auspicare l’avvento di una spiritualità più umana e compassionevole, che sappia vedere nel pluralismo identitario una risorsa, e non più una minaccia da annientare, costi quel che costi.

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