- Il problema, come testimoniano psicanalisti, linguisti, psicologi relazionali, è che nel cosiddetto “pensiero emotivo” la negazione non esiste: più raccomando “non bisogna dire x o y”, più quell’x o y resisterà ossessivo nella mente.
- Creando effetti di rebound, desiderio infantile di dirle a sfregio, quelle brutte parole; col risultato paradossale che ormai la «libertà di parola e di parolaccia» è diventata una bandiera delle destre.
- Salviamo le brutte parole, inserendole in contesti di resistenza all’omologazione. Diciamole tutte, almeno in contesti letterari o tecnici, per evitare che si nascondano dietro altre parole.
Qualche giorno fa Vladimir Luxuria, interpellata a una manifestazione, ha detto «C’è la libertà di parola, ma non ci sarà più la libertà di parolaccia». Luxuria è persona intelligente e attenta al sociale, quindi non credo che mi cazzierà se parto da questo suo estemporaneo calembour per riflettere un poco sul tema delle “brutte parole”. Accosto la frase di Luxuria a quella di una bambina di quattro o cinque anni: giocava al parco Sempione e d’un tratto (imitando senza saperlo la Mafalda di Quino) è sbottata in un «Io odio la minestra di verdura!» – subito la signora con cui stava l’ha corretta, «Odio è una bruttissima parola, non bisogna mai dire io odio».
Parole proibite
Le “parole d’odio” sono oggi tra le maggiormente imputate, ma credo che bisognerebbe distinguerle dai discorsi che inducono all’odio: se dico, o scrivo su Instagram, «È una vergogna che i ristoranti siano chiusi mentre i porti sono aperti», riferendomi evidentemente ai migranti clandestini, opero un’associazione arbitraria e irrazionale che spinge chi legge a paragonarsi ai suddetti migranti, vedendo sé stesso come un recluso privato della libertà di mangiare fuori con gli amici la sera, e loro come gente libera di muoversi a piacimento; dal confronto non può che nascere malanimo verso i migranti: questo è un discorso che induce all’avversione.
Ma quante volte invece pensiamo “io odio” riferito ai più vari soggetti: può essere l’espressione di una nostra condizione psichica, o il riflesso di un’emarginazione sociale – ogni sindacalista, o psicanalista, ha sentito ripetere “io odio” in tutte le tonalità. Si tratta di luoghi settoriali e protetti dove chi l’ascolta sa dare a questo sfogo il giusto valore; invece sui social quel che diciamo si rivolge a un pubblico indefinito, pronto a interpretare tutto nel peggiore dei sensi – quindi siamo indotti a censurare le parole più pesanti e a esprimere soltanto idee condivisibili; o viceversa le spariamo grosse per cercare lo scontro, la provocazione, la rissa. Siamo portati a “fissarci” nella maschera di noi stessi, con buona pace della pretesa fluidità. Forse sapendo, o forse no, che sugli scontri verbali i gestori dei network ci fanno i soldi; letteralmente, vendiamo a Zuckerberg le nostre autocensure e le nostre collere. Per i padroni dei social è più facile, eventualmente, espungere con un algoritmo le parole “proibite” che accorgersi di discorsi magari più pericolosi ma un minimo più articolati. Succede che tutte le brutte parole censurate marciscono e suppurano dentro di noi, salvo poi esplodere in rabbie improvvise che alimentano l’effetto delle opposte tifoserie, giocatori incarogniti nel medesimo gioco senza soluzione.
Ammettiamo comunque che i più accorti e tranquilli di noi, per non aggravare la situazione, decidano di attivarsi spontaneamente a favore di una pulizia generale del linguaggio, o magari anche di chiedere ai media (giornali e social) macchinose “norme” che vietino i post e i titoli più apertamente offensivi. Il problema è, come testimoniano psicanalisti, linguisti, psicologi relazionali, che nel cosiddetto “pensiero emotivo” (quello su cui è basata gran parte della comunicazione tra gli umani) la negazione non esiste: più raccomando “non bisogna dire x o y”, più quell’x o y resisterà ossessivo nella mente. Creando effetti di rebound, desiderio infantile di dirle a sfregio, quelle brutte parole; col risultato paradossale che ormai la «libertà di parola e di parolaccia» è diventata una bandiera delle destre.
Valvole di compensazione
Tradizionalmente una valvola di compensazione era fornita dalla satira, che oggi è fatta segno di accuse e reprimende. Oso proporre che l’orizzonte si allarghi dalla satira agli altri generi letterari, e che si faccia della letteratura un luogo di asilo per le parole non più dicibili. Prendo come esempio l’ormai impronunciabile parola che inizia con la “f”: che non è quella vecchia di quattro lettere su cui si scandalizzavano le nostre zie, e nemmeno l’anglosassone “fuck”, ma banalmente “frocio”. Invece di ricordare le arrabbiature di Vittorio Feltri, o la semplicistica ripicca di Pio e Amedeo, propongo un passo della Storia di Elsa Morante. Il piccolo Useppe, il bambino che soffre di attacchi epilettici, va in estasi quando il fratello maggiore gli mostra gli oggetti d’oro con cui torna a casa: orologi, catenine, bracciali. Useppe gli chiede come li abbia avuti e la risposta è invariabilmente «Me l’ha dati ‘n frocio» – così il piccolo immagina che esista un popolo ricchissimo e generoso, quello dei Froci con la maiuscola, che sono soliti regalare oggetti d’oro e altre meraviglie. Nella comunicazione mediatica (ricordando quanto male abbia fatto e faccia questa parola agli omosessuali) evitiamo pure di usarla, ma lasciamola sopravvivere in questo esiguo mito delizioso.
Il contesto
In un articolo che ho scritto per Domani un paio di settimane fa mi era venuta di getto l’espressione «la violenza dell’eros», avevo in mente i lirici greci dove l’eros abbatte, schianta eccetera; poi mi sono ricordato che oggi è praticamente impossibile usare la parola “violenza” se accanto ci sono parole come “amore” o “donna”; quindi mi sono autocensurato e ho scritto «la forza dell’eros». Il problema, come sempre, è il contesto. Lo so che qui il terreno si fa scivoloso, e dio mi guardi dal sottovalutare i disastri che la violenza può fare su una psiche femminile, per questo mi sono censurato; ma la parola “violenza” appartiene al discorso erotico, purché sia una “violenza contrattata” da entrambe le parti, come potrà dire qualunque membro di un’associazione Bdsm che partecipa al Gay pride.
Salviamo le brutte parole, inserendole in contesti di resistenza all’omologazione (anche la “violenza rivoluzionaria” non se la passa tanto bene, e su quest’ultima perfino la letteratura sembra tirarsi indietro). Per non parlare delle parole che proprio brutte non sono, ma strisciano minacciose e alludono a contesti passati. C’è per esempio il verbo “manipolare”: era un bel po’ che non lo sentivo se non nell’ambito della politica, a proposito di un leader carismatico che “manipola” i propri elettori. Ora sembra aver acquistato un posto nel lessico sessuale: ci sono donne che a distanza di anni scoprono che aver amato un certo uomo è stato uno sbaglio, perché ripensandoci hanno capito di essere state “manipolate”, cioè in ultima analisi ancora una volta violentate – la parola, ai miei orecchi di anziano, ne sostituisce un’altra che non si può più dire, il verbo “plagiare”. Era il 1968 quando Aldo Braibanti, artista, ex partigiano e mirmicologo, fu condannato a nove anni di reclusione con l’accusa di aver “plagiato” il suo giovane compagno (che intanto era stato chiuso dai genitori in una clinica per disturbi mentali e costretto a «evitare di leggere libri che avessero meno di cento anni»). Grazie al clamore suscitato dal caso fu messo in discussione il reato di plagio, eredità del codice Rocco, finché nel 1981 questa tipologia di reato fu abolita. Diciamole tutte le parole, almeno in contesti letterari o tecnici, per evitare che si nascondano dietro altre parole: che cosa c’è, credo, dietro il verbo “manipolare”? C’è un’idea della donna appunto come essere plagiabile, soprattutto da parte di un uomo a cui si riconosce magnetismo e carisma; quindi è parola che contiene un malcelato e stravolto maschilismo. Le parole sono importanti soprattutto perché sfuggenti, ambigue: pare che ribaltino qualche pregiudizio ma spesso ne confermano sotterraneamente uno più subdolo.
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