- C’è una somiglianza speciale tra la mitologia e l’etimologia, cioè la disciplina filologica che determina le origini (delle origini, delle origini, ecc.) delle parole. Una questione di famiglia – di stirpi, appunto.
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Proprio al discrimine tra quel che è nostro e quel che non lo è (o non lo è più), alla differenza tra noi e loro e tra i discendenti di uno o dell’altro eroe patriarca, risale la cosmogonia linguistica del mito di Babele: avremmo ricevuto le lingue, come una punizione, per distinguerci, e dunque dividerci.
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Nasce in effetti per separare, la lingua: per dire che “questo” non è “quello”, ma anche che non è “questi” né “questa”. Né “questə”. Il testo fa parte dell’ultimo numero della newsletter Cose da maschi. Per iscriverti clicca qui.
Da dove vengono le parole? Vengono da altre, più antiche parole, lo sappiamo: da parole che si pronunciavano un tempo, in lingue che oggi chiamiamo “morte” e che studiamo senza parlarle. Pare che il mio nome, ad esempio, germini da due parole che si usavano nella Grecia antica: il verbo per “difendere” e il genitivo di “uomini”. Anche quelle parole genitrici affondano però le radici in lingue persino più remote, che possiamo studiare solo per via di rarissimi fossili verbali e congetture logiche – le stesse, più o meno, che adoperiamo per immaginare come dovessero apparire le bestie preistoriche su cui nessun occhio umano s’è mai posato.
Ogni creatura vivente oggi discende senz’altro da una singola forma di vita microscopica, emersa tre o quattro miliardi di anni fa tra rocce oceaniche animate dai gas vulcanici dell’età adeana. Chissà se è vero, come alcuni pensano, che anche ogni singola parola oggi pronunciabile in qualsiasi idioma radichi in un unico primordiale linguaggio, emerso due o tre milioni di anni fa tra gli antenati scimmieschi che condividiamo con gorilla e oranghi.
La parola per “uomini” da cui viene metà del mio nome suona simile a quella con cui, in sanscrito, si parla di eroi, mariti, pedoni degli scacchi e gnomoni degli orologi solari. Una parola molto simile significava “forza” o “potere” nell’antica lingua dei celti, e si è evoluta nei termini gaelici e irlandesi per analoghi concetti. L’ipotesi (inverificabile) è che l’idea di virilità e di forza vitale si esprimesse, nell’ancestrale linguaggio degli indoeuropei dell’età del ferro, con un suono simile a quello in cui finisce il mio nome, e che in latino ha generato l’aggettivo che significava “severo”, “vigoroso” e “fermo”, a sua volta all’origine del nome Nerō.
Alessandro e Nerone, due leggendari megalomani che guidarono i maggiori imperi del Mediterraneo, dovevano dunque forse entrambi il loro nome al modo in cui 6mila anni fa si diceva, in sostanza, “maschio”. E dai due massimi eroi maschi dell’epica, secondo il mito, discendevano le loro stirpi: da Enea quella Giulia di Nerone, da Achille quella Pirriade di Alessandro.
Il mito dell’etimo
C’è una somiglianza speciale tra la mitologia e l’etimologia, cioè la disciplina filologica che determina le origini (delle origini, delle origini, ecc.) delle parole. Una questione di famiglia – di stirpi, appunto. Come per la fantascienza, il carburante di entrambe è l’infinita espandibilità del loro universo speculativo. Non a caso la mitopoiesi di Tolkien, che intesseva favole per giustificare le lingue che inventava, andava di pari passo con la sua erudizione filologica, non a caso l’Enterprise di Star Trek aveva a bordo una filologa, la comandante Uhura.
Nell’infinità dei mondi possibili c’è sempre un pianeta ignoto in cui trovarsi al cospetto di sé stessi. C’è sempre un possibile padre titano della madre dea del padre eroe della madre sacerdotessa dell’imperatore che al mercato mio padre comprò. C’è sempre un popolo più antico alla cui parlata far risalire le radici di una parola che rivendichiamo come nostra. E proprio al discrimine tra quel che nostro e quel che non lo è (o non lo è più), alla differenza tra noi e loro e tra i discendenti di uno o dell’altro eroe patriarca, risale la cosmogonia linguistica del mito di Babele: avremmo ricevuto le lingue, come una punizione, per distinguerci, e dunque dividerci. Nasce in effetti per separare, la lingua: per dire che “questo” non è “quello”, ma anche che non è “questi” né “questa”. Né “questə”.
Un fiume filologico
Evolve, la lingua, sempre distinguendo: per scarti che filologicamente abbiamo imparato a separare gli uni dagli altri. Giammei è più recente di Giammattei, cui probabilmente risale e che significa “discendenti di Gianmatteo”, dalle traslitterazioni ellenizzanti dei nomi semitici Yochanan e Matityahu che, prima della modernità, danno quelli italiani Giovanni e Matteo, ancora correnti.
Se le parole più vecchie tendono a suonare più aspre o complicate (come spesso, d’altronde, le persone) è perché la storia della lingua è come la corrente di un fiume: leviga, portando via le parti che si protendono dal cuore di un suono (come le T di Giammattei), amalgama, semplificando più suoni in uno (come l’incontro NM in Gianmatteo), e addolcisce, spostando la lingua – quella anatomica – tra mascella, palato e alveoli (da “Yochanan” a “Ioannes”), separando i denti e le labbra, congiungendo più facilmente l’aria fuori a quella dentro la bocca e il naso.
La sto facendo un po’ facilona, ma una decina di anni fa, all’università, mi scervellavo per imparare a riconoscere e nominare tutti i fenomeni che, nel corso dei secoli, hanno levigato parole latine (e greche, e germaniche, e arabe) in quelle che ora sto adoperando per scrivere queste righe. Avendo studiato Lettere, infatti, ho dato esami di glottologia, linguistica e storia della lingua, e ho imparato come i flutti di questo corso d’acqua inesausto che chiamiamo “italiano”, oltre a levigare, allontanano irrimediabilmente certe parole sorelle quando si separano le une dalle altre.
“Soldo” è una versione, più levigata dalla storia, della parola “solido”, come “biscia” lo è di “bestia”, e basta cambiare una lettera per divaricare i diversi sensi di due parole che derivano dal medesimo verbo composto latino: “supportare” e “sopportare”. Ma le parole quasi identiche che mi appassionano di più sono quelle che differiscono irreparabilmente perché, a un certo punto della loro storia, il loro femminile ha cominciato a significare una cosa diversa rispetto al loro maschile. Il foglio e la foglia, il porto e la porta, il cassetto e la cassetta. Basta una desinenza.
Il caso e la casa
Mi correggo, le parole quasi identiche che mi appassionano di più sono quelle che non erano destinate a incontrarsi in virtù di una comune discendenza etimologica, e che tuttavia sono finite, dopo millenarie navigazioni solitarie lungo il fiume della storia della lingua, per arrivare all’estuario dell’italiano vivo somigliandosi in tutto e per tutto tranne che per il genere.
Il mio film preferito della saga di Star Wars è l’ottavo, Gli ultimi Jedi, perché in esso ancora non si è deciso (spoiler alert) che Rei è banalmente la nipote dell’Imperatore – e anzi si insiste che è figlia di nessuno, e che proprio per questo è l’autentica erede di Luke. Quando Kylo Ren, che di Luke (e Darth Fener) è erede biologico, la guarda telepaticamente attraverso la galassia come in uno specchio e le tende la mano, sorprendendosi a riconoscersi in lei, il miracolo sta tutto nel caso.
È un caso, completamente fortuito, che ha portato sulla stessa astronave quei due opposti ma affini schermidori di spade laser, capaci di interrompere il ciclico scontro binario tra la Forza e il suo Lato oscuro proprio perché, contro ogni apparenza, non sono due facce della stessa medaglia. “Caso” è un esempio perfetto di quello che sto dicendo. Il “caso” e la “casa” sembrano, come “foglio” e “foglia”, maschio e femmina di un medesimo concetto, ed è difficile non indulgere a immaginare quale radice ancestrale possano condividere il “caso” che rimbalza Ulisse ai quattro angoli del Mediterraneo mentre Penelope lo attende a “casa”, e la “casa” in cui Andromaca non potrà reincontrare Ettore perché per “caso” (proprio quella mattina!) ha scambiato Patroclo per Achille.
O ancora, incrociando i generi, il “caso” cui la bruta Ygritte si affida oltre la barriera e la “casa” cui Jon Snow rimane fedele, nonostante il giuramento ai guardiani della notte e persino la diserzione nelle fila di Mance Rayder in Game of Thrones – o appunto il “caso” di cui è figlia Rei e la “casa” Skywalker da cui discende Kylo Ren.
Nonostante l’incanto mitologico, tuttavia, lo scrupolo filologico mi porta sulle pagine di un lessico etimologico a constatare che le radici di “caso” hanno a che fare col verbo latino per “avvenire”, probabilmente evolutosi da un’antica parola perduta legata al concetto di caduta, inciampo, accadimento. “Casa” invece è una cugina di “scena” e di “cuoio”, di “cieco”, “scaglia” e “scudo”, nonché delle parole sanscrite per “ombra” e “coprire”, le cui origini verbali in indoeuropeo significano forse “intessere”, forse “rete” o “catena”, forse più banalmente “riparo”.
Due famiglie irrelate, addirittura estranee, hanno generato queste improbabili parole allo specchio, gemelle diverse come Nerone e Alessandro, distinte solo dal maschile e dal femminile. Il punto forse è che quella distinzione è un punto di arrivo invece che di partenza, uno scarto arbitrario invece che essenziale. Ma su questo ragioniamo più diffusamente la settimana prossima.
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