Amante del ciclismo, lo scrittore e regista arrivò a offrire all’abruzzese Vito Taccone una parte nel Decameron. La faccia «simpatica» di Eddy Merckx, Dancelli «accorato come un ragazzino», il «piccolo-borghese Adorni»
«Sotto i cartelloni del cinema / si discorreva del Giro d’Italia ergendo / le voci nella notte verde di nascenza»; sono alcuni pasoliniani versi tratti da Appendici a L’italiano è ladro. Sin da ragazzetto lo scrittore seguiva tappa dopo tappa il Giro d’Italia, leggendo «quella specie di romanzo a puntate con personaggi tutti diversi» narrato da Ugo Ojetti nelle sue cronache sportive sul Corriere della Sera.
Pier Paolo Pasolini gioca al pallone e pratica una vita da atleta: mangia poco, non beve alcolici non fuma, dorme il giusto, e alle partitelle affianca la boxe oppure la bicicletta, tanto che nell’estate del 1940 pedala da Bologna a Casarsa, passando per Venezia, a vedere la Biennale, e San Vito di Cadore: tre tappe in tre mesi, in tutto fanno più di quattrocento chilometri in compagnia, ma solo fino a Venezia, dell’amico Ermes Parini detto il Paria, quel suo compagno di studi che due anni dopo morirà di freddo e di stenti nella Campagna di Russia.
Nell’immediato Dopoguerra, in Friuli Pasolini pedala quasi ogni giorno lungo la strada che da Casarsa lo porta a Valvasone dove insegna, e un bel giorno il “professore” prova anche a competere con Egidio Feruglio e Giordano Cottur, due corridori professionisti della Wilier Triestina incontrati lungo la via, resistendo a perdifiato per chilometri e chilometri incollato alla loro ruota. E poi a Roma. Anche nella capitale la bici rimane il suo mezzo di trasporto privilegiato: «Può venire in bicicletta e lasciarla in custodia alla portiera», scrive nell’agosto 1951 il poeta Casimiro Fabbri a Pasolini. Poi quella bicicletta gliela rubano e al lavoro ci dovrà andare con l’autobus, almeno fino a quando nel 1957 Federico Fellini lo omaggerà di una Fiat 600, la sua prima automobile.
Con Kapitonov nelle borgate
Ma la bicicletta era ormai parte integrante del suo più intimo “romanzo” popolare. Nell’agosto 1960 il settimanale Vie nuove lo incarica di seguire le Olimpiadi, che quell’anno si svolgono a Roma, e il 10 settembre esce “Tradì i pattini per la bicicletta”, un articolo dedicato al campione olimpico di ciclismo su strada Viktor Kapitonov, sovietico, un biondo giovanotto ventisettenne «secco, alto, caldo di energia fisica, timido», che «ogni volta che apre bocca mi sembra debba dire una frase friulana».
Finita l’intervista, assieme al suo allenatore e a un interprete «montiamo in macchina: istintivamente vado verso la periferia», tra le «infangate, miserande casette della borgata perse nel livore della notte, mute». Dormono tutti?, domandano. «”No!” dico io sorridendo “qui c’è una specie di coprifuoco!” Scendiamo dalla macchina, nel piazzale circondato dalle casette degli sfruttati, chiuse nel loro miserabile orticello. Lontanissime, splendono le luci della Roma olimpica. Non dormono, no, alla borgata: se ne stanno, esclusi dalla città, come rintanati tra le loro casette. Vedendoci, un po’ alla volta vengono fuori, si raccolgono intorno, è una piccola folla: sono quasi tutti giovani, e come riconoscono Kapitonov, gli si raccolgono intorno, festosi, nei loro eleganti stracci di malandrini. Ah, quante cose ci sarebbero da dire...».
«Lei sa chi era Canavesi?»
Raggiunta la fama come scrittore e regista, lo chiamano a parlare di ciclismo anche in tivù: il 17 maggio 1969, a una puntata del Processo alla tappa Pasolini può dialogare con il campione abruzzese Vito Taccone e rispondere alle domande di Vittorio Adorni, che da lui vorrebbe sapere quanto sincero sia il suo interesse per il mondo del pedale. E Pasolini, sornione e pungente: «Il ciclismo è uno sport che mi piace moltissimo, e lo amo da vent’anni, da quando ero ragazzino. Per esempio, lei sa chi era Canavesi?», Severino Canavesi è un lombardo che ha avuto il torto di correre ai tempi di Bartali e Coppi.
Adorni si mostra sorpreso: «Era un ciclista che correva vent’anni fa, tanto per dirne uno». E poiché allo scrittore piacciono le storie e le facce alla Canavesi, ecco, «stando qui nascono le sorprese e le cose impreviste. Per esempio ho visto due facce che veramente prenderei in un film, la faccia di Dancelli e quella di Taccone». Al commovente Taccone una parte la offrirà per davvero, nel Decameron: «Peccato che io non avessi finito la mia carriera», dirà il corridore abruzzese a Valerio Piccioni, «ero ancora impegnato in bicicletta, mi dispiacque molto. Anche perché da allora non lo vidi più».
E, sempre a proposito di facce da film, eccolo il 10 maggio di quell’anno invitare gli italiani a considerarsi cittadini transnazionali e godersi la travolgente vitalità di un eccezionale campione come il belga Eddy Merckx, «tanto più che – del resto come tutti i ciclisti – ha una faccia così simpatica» (“La faccia di Merckx”, Tempo illustrato, 10 maggio 1969, rubrica Il caos).
Questo articolo, e non altro, gli varrà l’invito da parte di Maurizio Barendson e Sergio Zavoli al Processo alla tappa di quel Giro “storico”: a Savona il 2 giugno proprio Merckx risulterà positivo a un controllo anti doping e di conseguenza verrà sospeso; la maglia rosa passerà a Felice Gimondi, che in segno di solidarietà con il campione belga aspetterà un poco a indossarla, ma la terrà sino alla fine. Sui corridori incontrati quel pomeriggio al Processo alla tappa, Pasolini torna il 7 giugno 1969 nella sua rubrica sul Tempo illustrato, ricordando proprio Michele «Dancelli, accorato come un ragazzino, che vede le ingiustizie del mondo con chiarezza e umiltà, senza arrendersi ma senza per questo incattivirsi o rendersi prepotente».
E poi ricorda «l’intelligente Taccone, che, forse perché viene dal Sud, a differenza di Dancelli, è costretto a portare più avanti la critica: non solo lotta, ma cerca di farsi cosciente dei termini reali di questa lotta». Per Pasolini, Taccone e Dancelli sono figure in bilico tra realtà e irrealtà, e «l’irreale è la cultura borghese di massa con i suoi “media”». La loro simpatia umana a lui pare innegabile, ma «qualcosa tende con violenza a sopprimerla», tanto da indurli a eludere la verità, perché «se la dicessero farebbero una cosa sconveniente rispetto al “video” e ai loro datori di lavoro».
Di lì a poco (Corriere della Sera, 24 agosto 1975), la «stupidità delittuosa della televisione» diverrà il pasoliniano capo d’imputazione in un altro Processo: quello alla Democrazia cristiana.
Un grazioso piccolo-borghese
Con Adorni, aggiunge Pasolini sul Tempo, si è invece «parlato del più e del meno, cioè del nulla», e lo spiega: «Tra tutti i simpatici visi popolari dei ciclisti» quello di Adorni è «l’unico viso piccolo-borghese, ancorché grazioso», e per questo motivo di sicuro farà «più carriera come annunciatore della televisione che come ciclista».
Nel lessico pasoliniano “piccolo-borghese” non suona a complimento: e poi Adorni – orrore – era anche un affermato conduttore di tele-quiz e un disinvolto commentatore televisivo di cose sportive; ma solo otto mesi prima del suo incontro-scontro con Pasolini, a Imola, sempre lui, il telegenico eroe piccolo-borghese, si era laureato campione del mondo di ciclismo su strada. Maglia rosa nel 1965 al Giro d’Italia e campione del mondo nel 1968: quanta strada ha fatto Adorni. Secondo Pasolini, «un atleta ha un solo modo per realizzare pienamente la propria libertà: lottare liberamente per vincere»; e il miglior libero lottatore è nei fatti Eddy Merckx, detto “il cannibale”, perché il suo corpo «è più forte del consumo che se ne fa. Le vittorie di Merckx sono scandali».
Doping incluso, verrebbe da aggiungere. Ma Pasolini non può saperlo, perché scrive questo articolo prima che i commissari dell’Unione ciclistica italiana trovino il campione belga positivo alla fencamfcamina, uno stimolante del sistema nervoso che aiuta a combattere la fatica.
Facce da cinema
Si direbbe che, più di altri, gli sportivi abbiano “facce da cinema”. Facce “popolari” come quella di un famoso attore come Raffaele Vallone detto Raf, che negli anni Trenta aveva giocato ventisei partite in Serie A nel Torino (e, sempre in A, sette ne giocherà con il Novara), segnando quattro reti e vincendo anche una Coppa Italia.
O come la faccia atletica e barbuta di Giuseppe Gentile, pronipote dell’illustre filosofo, ex recordman mondiale nel salto triplo e medaglia di bronzo olimpica a Città del Messico nel 1968: a lui Pasolini si affida nel 1969 per la parte di Giasone in Medea, accanto a Maria Callas (e in questo film il possente discobolo e rugbista azzurro Gianni Brandizzi riveste i panni di Ercole). Oppure la faccia di quel «giocatore di calcio» del campionato etiopico di serie A «visto dentro lo stadio dell’Asmara», su cui Pasolini posa gli occhi per la parte del re Harùn nel Fiore delle Mille e una notte (1974).
Indimenticabile era poi la faccia da indio di Carlos Monzón, l’ex lustrascarpe e ladruncolo di Santa Fe, Argentina, che il 7 novembre 1970 al palasport di Roma mette al tappeto il “fascista” Benvenuti, troncandogli così la carriera. Pasolini se ne innamora, e lo vorrebbe a fare Yunàn nel Fiore delle Mille e una notte. La “borsa”, pur cospicua – quindicimila dollari più la diaria – è circa un decimo di quanto il pugile percepisce per un combattimento mondiale con titolo in palio. Nondimeno Monzón ci pensa, Pasolini lo incontra in Spagna, ma gli impegni del pugile sono tanti, e alla fine non si approderà a niente.
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