Il pranzo di Pasqua è momento di festa e di norma racconta qualche memoria, legata sia a cosa si mette in tavola, sia alle persone con cui la tavola si condivide. Tra le tante ricette e le specificità locali italiane, difficile che manchino – in una forma o nell’altra – quantomeno tre elementi: agnello, colomba e uova.

Agnello

(Stephan Schulz/picture-alliance/dpa/AP Images)

La prima cosa da scrivere è che l’agnello pasquale non è tradizione esclusivamente cristiana, anzi, ma forse questo è l’aspetto più noto di quanto stiamo per raccontare.

Chi ha studiato anche solo un po’ di catechismo ricorderà il racconto della Pesach, la Pasqua ebraica che celebra la fine della schiavitù del popolo d’Israele prigioniero in Egitto. Ricorderà il Libro dell’Esodo (12, 1-14), quando Dio annunciò a Mosè e ad Aronne l’imminente liberazione e si servì dell’agnello per identificare chi fosse meritevole della salvezza.

Ordinò infatti a tutte le famiglie del popolo di Israele di uccidere un agnello, segnare con il sangue le porte delle case per farsi riconoscere ed evitare il castigo, riservato ai primogeniti del paese d’Egitto. L’uccisione degli agnelli doveva seguire regole ben precise, così come la loro consumazione.

È qui che la bestiola assume suo malgrado la valenza sacra e simbolica dell’innocente destinato al sacrificio per la salvezza. Stessa simbologia che si ritroverà nel Vangelo di Giovanni (Gv 1,29-34), nel quale Giovanni Battista saluta la venuta di Gesù come quella dell’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Ma passiamo oltre e accostiamoci al dolce.

Colomba

Un murale al ministero della Salute, apparso un anno fa, con una colomba pasquale che porta i vaccini (LaPresse)

Così come quella dell’agnello, anche la portata simbolica della colomba trova il proprio riferimento nell’Antico Testamento, e in particolare nel momento della fine del diluvio, narrato dalla Genesi (8, 10-11). Noè dalla sua arca vede le acque iniziare a ritirarsi, ma non vuole correre rischi e invia una colomba in esplorazione, senza però riuscire a trovare alcuna terra dove posarsi.

Noè decide allora di aspettare altri sette giorni prima di riprovare e questa volta il risultato è diverso. La colomba torna all’arca sul fare della sera, nel becco ha un ramoscello d’ulivo ed è questo il segno atteso dal patriarca: le acque si sono davvero ritirate e la terra si ripropone come sede della vita. La colomba e il suo ramoscello d’ulivo diventano simbolo della pace. Quella pace che sarà poi portata al suo punto più alto (secondo i cristiani) nel momento della resurrezione di Cristo, evento miracoloso di pura gioia, da celebrare anche attraverso la letizia del banchetto.

Di qui alla presenza della colomba nel piatto di Pasqua il passaggio non è poi così ovvio, e neppure così facile da ricostruire. Come spesso accade per le questioni nelle quali cibo e religione camminano in stretta connessione, le tradizioni si moltiplicano e risalire fino alla sorgente della loro veridicità e tutt’altro che semplice.

Leggende non ne mancano, come quella che fa risalire l’origine del dolce chiamato come l’uccello simbolo della pace al re longobardo Alboino (530 circa-572), che durante il lungo assedio della città di Pavia (durato circa tre anni e conclusosi proprio in prossimità della Pasqua), ricevette in dono dai cittadini un pane dolce a forma di colomba, in segno di pace.

Fermiamo qui i racconti mitici e volgiamo lo sguardo a qualcosa di più reale: la storia della commercializzazione del dolce-colomba, risalente agli anni Trenta del secolo scorso, quando un pubblicitario (Dino Villani) ebbe l’idea di riciclare gli avanzi dell’impasto del panettone natalizio e rimettere in funzione a primavera le macchine necessarie a produrlo. Lavorava per l’industria dolciaria Motta, Villari, e pensò di inventare la tradizione di un dolce tipico per la Pasqua, dandogli la forma di una colomba.

Uova

Chiudiamo il trittico con le uova, e anche in questo caso il cristiano deve voltarsi indietro se vuole comprendere a fondo la propria tradizione. Ancora una volta alla religione ebraica, per la quale l’uovo aveva una forte valenza simbolica. La memoria dell’esodo dall’Egitto veniva celebrata anche attraverso la simbologia di un alimento, l’uovo, che ha una forma particolare, nella quale non si vede né fine, né inizio, rappresentazione ideale del ciclo continuo della vita e della morte, del lutto per la schiavitù e della rinascita per la libertà.

La tradizione ebraica non era la sola a utilizzare la metafora dell’uovo per celebrare la vita e la fertilità: la sua forma aveva attratto anche la cultura religiosa egizia, per la quale proprio l’uovo rappresentava il principio di tutto, il fulcro dei quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco). I persiani lo consideravano un segno di rinascita, perfetto per essere scambiato in dono al principio della primavera, momento del rifiorire della natura.

Ancora, i riti contadini dell’antica Roma prevedevamo si seppellisse nei campi un uovo dipinto di rosso per propiziarsi un generoso raccolto. Questa usanza fu ripresa anche dai primi cristiani, che nel colore rosso videro il sangue di Cristo. Tuttora questa abitudine è rispettata in diverse comunità ortodosse e cristiano-orientali. Per chi crede nella resurrezione di Gesù l’uovo diviene simbolo non tanto della rinascita della natura a primavera, quanto piuttosto dell’uomo stesso.

Presa di distanza

Questa rassegna delle tradizioni, certo incompleta ma utile a concludere la nostra riflessione sul cibo e la Pasqua proposta come un racconto a puntate in questi ultimi tre giorni, porta a una considerazione importante per chi studia e si interessa di storia delle religioni. Un procedimento prima mentale e poi devozionale tipico dell’alternarsi tra religioni è quello della presa di distanza. Di cosa si tratta? Della volontà di allontanarsi da convinzioni religiose precedenti e/o concorrenti.

Per essere chiari: se la religione alla quale mi voglio opporre (o che voglio in qualche modo sostituire) dispone un determinato obbligo, io cercherò di non osservarlo, anzi di distinguermene seguendo regole completamente diverse, meglio ancora se opposte. Restando sulla tavola, possiamo menzionare i primi discepoli cristiani, che più o meno consapevolmente si allontanarono dalle usanze cosiddette pagane (soprattutto romane e greche) del sacrificio degli animali, promuovendo piuttosto il digiuno e l’astinenza, a determinate condizioni, dalle carni.

Più ancora di quelle romane, erano però le regole alimentari ebraiche quelle da cui prendere esplicitamente le distanze per affermare la diversità del cristiano. Gli ebrei si ispiravano e ancora si ispirano a un principio rifiutato radicalmente da Gesù (Mc 7, 15) e dai suoi primi seguaci: l’esistenza di un grado di purezza, o all’opposto di impurità, nell’alimento e non nell’attitudine o nel comportamento di chi vi si accostava per mangiarlo. Per questa ragione alcuni animali erano del tutto interdetti, altri commestibili solo se trattati secondo operazioni rituali.

Se dunque si vogliono prendere le distanze, perché siamo qui a scrivere di agnello, colomba e uovo presentando la stretta connessione tra le tradizioni della mensa ebraica e quelle della mensa cristiana? Perché la storia ci racconta che, per quanto si cerchi di tenerle lontane, le tradizioni trovano la propria strada, sono capaci di inventare nuove connessioni e di rientrare dalla finestra quando qualcuno cerca di metterle alla porta. Accettiamo la complessità della nostra identità alimentare e celebriamo i nostri banchetti, qualunque sia il cibo che li compone, senza giudicare quelli altrui.

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