Lost in translation. Ma perché adottare un titolo stranoto e ormai così ingannevole, per di più in inglese? Molti ricorderanno il film di una ventina di anni fa così intitolato. La formula doveva essere già diventata proverbiale negli Stati Uniti e prospettava una condizione di spaesamento o smarrimento, spesso geografico, ma anche sentimentale o culturale o altro. Questa la vulgata, falsa come spesso capita.

A coniare l’espressione era stato un po’ di tempo prima il poeta Robert Frost, quando aveva decretato che «la poesia è ciò che va perso in traduzione». Bella battuta, perfida quanto basta – e memorabile.

Rischio di fraintendimenti

Anche se Dante l’aveva detto già, e meglio, nel Convivio: «Nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra trasmutare senza rompere tutta sua dolcezza ed armonia».

Frost – bisogna ammetterlo – è d’effetto più immediato e, proprio per questo, si presta a essere frainteso, rischio connaturato a ogni cliché. Se l’ho ripreso è perché qui assume un’accezione ulteriore, funge da contravveleno.

Chi non fa che trasporre testi da un’altra lingua nella propria, come il sottoscritto, rischia di perdersi nell’intermondo della traduzione – e un intermondo è uno spazio vuoto, sede delle divinità, dicevano gli epicurei di un tempo.

In quello spazio vuoto, senza farsi soverchie illusioni sulla presenza di divinità eventuali, dove prima lingua franca, o d’emergenza, era l’italiano, oggi vige l’inglese. Insomma, dovunque e comunque mi rigiri sono perso. Come volevasi dimostrare.

Voce e lingua

Parlando di taluni ardui scrittori che ho avuto la ventura di affrontare come Kipling, Tolkien, Céline, Lafcadio Hearn, parlo spesso di animali, a partire da quelli della giungla, che parlavano con un enfant sauvage.

È un sommesso, nostalgico portato delle favole, dei miti. Abbandonata la torre di Babele al suo vanesio, infausto e in fondo futile destino, l’unica sarebbe riportarsi anche più indietro, per il ripristino di un mondo dove umani e animali tornano a parlarsi.

Una chimera? In che lingua parlava il serpente, domandava capzioso Giuliano l’Apostata? Nella lingua dei sogni, dei desideri, dei fantasmi. Ma pur sempre una lingua di terra, di una terra. Una lingua ha bisogno di una voce come una voce ha bisogno di una lingua, anzitutto di carne: e un corpo ha bisogno della terra.

La lingua è in primo luogo carne viva in una bocca su una lingua di terra. Tutt’intorno, l’oceano variegato della psiche dove darsi all’interpretazione dei segni, di quei sogni che animano le parole.

Nell’impossibilità al momento di risalire più indietro nel tempo, gioverà magari ripartire da un testo di quattromila anni fa come l’epopea di Gilgameš. All’inizio Enkidu, uomo selvaggio e figura pastorale, capiva la lingua delle bestie. A sedurlo penserà una cortigiana e dal consesso a due, tempo una settimana, Enkidu poteva dire addio al dono. Era “civilizzato”.

Smentire Wittgenstein

Dietro tutto, sulle prime non così chiaro e in ogni caso non dichiarato ai miei stessi occhi, l’intento era smentire Wittgenstein quando afferma che anche se un leone potesse parlare noi non lo capiremmo.

Varrà magari – e non è detto – per gli extraterrestri, a noi senz’altro alieni e, prima ancora, inesistenti, che per esigenze pecuniarie di copione parlano americano nei libri e nei film di fantascienza: non per gli animali, così simili a noi, che bazzicano da prima di noi questo pianeta, che conoscono e condividono con noi mille emozioni, stimoli, reazioni, sensazioni, impulsi, istinti, condividono con noi il giorno e la notte, il caldo e il freddo, la fame, la sete, la paura, le stagioni, le migrazioni, e cataclismi, e piaghe, la procreazione come, ininterrotta, una moria che pure ci riguarda e che, di nuovo, tutti ci accomuna. Peraltro un leone – a modo suo – già parla. E lo capiamo.

Siamo dello stesso sangue, avrebbe detto Mowgli. All’origine c’è il contratto animale. Gli animali domestici ne sono la riprova millenaria. E anche quelli selvatici – feriti, affamati, in trappola, in preda al panico – è a noi che si rivolgono allo stremo delle forze.

Un patto di sangue

Celato sotto i nostri stessi occhi c’è un patto di sangue. A noi riportarlo alla luce. E rispettarlo. La comunicazione animale è la traduzione prima. Un passo indietro, incontro alla mèta, che è l’origine, e l’uomo incontra se stesso nella sua natura indivisa, dietro la comunicazione emerge già la comunione. E proprio la traduzione, paradossalmente, permette di avvertirlo con più forza nella sua lacerante polarità.

Credono i più che per camminare basta riempire le scarpe con i piedi. Siamo pieni di pregiudizi. Di parecchi potremmo con un minimo di sforzo sbarazzarci. Altrimenti non si va molto lontano. Siamo zingari accampati in mezzo ai ruderi e, anche questo, soltanto finché dura.

E la traduzione? Già, la traduzione. Avrei dovuto mettermi a parlare anch’io di fedeltà, di originali e tutta la manfrina da convegno. Chi ha inteso parlare dell’amore ama l’idea. Ma chi ama l’amore? L’idealista, il sognatore. Il poeta no. Tradurre è una pratica, un’arte, una dottrina, una disciplina: un’osservanza; coinvolge l’intera persona. La traduzione non esiste.

Ci dev’essere qualcosa da tradurre. Ci dev’essere qualcuno da amare. Si tratta ogni volta di arte incarnata, di transustanziazione in pillole. Buonanotte ai traduttologi. E buona caccia a chi abbraccia la Legge della Giungla.


Ottavio Fatica è autore di Lost in translation (Adelphi)

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