Conquistare l’attenzione dei ragazzi prescinde dal fatto che l’insegnante conosca la materia, prescinde dalla stima che gli studenti nutrono per il docente, prescinde dai loro interessi. Non si tratta di essere insegnanti bravi, preparati, formati, sensibili, empatici. Il punto è che si distraggono facilmente. Per esempio N., seconda liceo, dice: «La scuola mi interessa, ma a un certo punto mi annoio». Cos’è che ti annoia? «Mi sembra che non mi riguardi»
La regola non scritta della scuola è che, in classe, gli studenti possono chiacchierare, darsi lo smalto, pettinarsi, consultarsi, studiare altre materie invece che stare attenti alla spiegazione/interrogazione, dedicarsi ai giochi on line, insomma, possono distrarsi in qualsiasi modo, ma una cosa è certa: pur avendo la mente impegnata in altre dieci questioni in contemporanea, si accorgeranno sempre – sempre – se conosci la tua materia, se sei preparata, se sai insegnare, a prescindere dall’attenzione che ti dedicano.
Tutto quello che esiste fuori dalla scuola, tutte le loro passioni e, financo, il loro disinteresse, sono anch’essi scuola. Sono il terreno da cui fioriscono e dal quale acquisiscono la postura che terranno prima in classe e, successivamente, nel mondo.
Anche tu, che insegni, sei la scuola. Soprattutto tu. E nella loro personale tassonomia scolastica, di cui spesso non sono consapevoli, gli insegnanti si dividono in due macrocategorie: quelli a cui interessano i loro interessi, e quelli che se ne disinteressano.
Ma che cosa sappiamo davvero degli interessi dei ragazzi? Me lo chiedo ogni giorno. Non nascondo la mia vorace curiosità nei confronti delle loro passioni, dalle più alte alle più prosaiche (ammesso che ne esistano, di prosaiche, per persone che sono in un’età cruciale, in cui ogni scelta, o ogni amore, fa la differenza). Ho sempre la sensazione di dover conoscere tutto della loro cultura, dalle canzoni al social che va per la maggiore, perché altrimenti farebbero strame di me, sghignazzando senza ritegno. Se per caso me ne uscissi con un riferimento al passato (che per me è ancora presente, ma per loro è remoto anteriore e anche posteriore), mi polverizzerebbero, spargendo le mie ceneri al vento, e da quel momento in poi si darebbero di gomito per sempre, per l'eternità, motteggiando «ma ti ricordi quando ha detto...?», «ah quella ha detto... cioè ma ti rendi conto?».
Ma qui parla la mia insicurezza.
All’altro capo dello spettro ci sono i docenti che ritengono giusto e utile non sapere nulla degli studenti, che li considerano una indispensabile zona d’ombra, convinti che non esistano ponti né terreni comuni che accorcino le distanze; sono insegnanti per cui tutta quella giovinezza è la vita che cresce e che si contrappone alla (de)crescita della loro. Di conseguenza, si propongono di accendere una fiamma dall’altra parte di un confine che ritengono (a ragione, forse) impossibile da varcare, sperando che i ragazzi decidano di seguirla e alimentarla.
Che tu sia la gazzella della curiosità o il leone della ragionevolezza, mantenere viva la soglia di attenzione in una classe richiede sempre il talento dei funamboli. I motivi sono molteplici.
Di sicuro la pandemia ha fatto deflagrare una bomba fino ad allora inesplosa. Non sono d’accordo con quanti sostengono che la didattica a distanza abbia creato questi problemi, sono invece convinta – ed è una convinzione che nasce dall’osservazione quotidiana precedente alla pandemia – che le studentesse e gli studenti avessero già attacchi di panico, crisi d’ansia, una soglia di attenzione molto bassa, e che l’isolamento abbia accentuato una condizione critica.
Conquistare l’attenzione dei ragazzi prescinde dal fatto che l’insegnante conosca la materia, prescinde dalla stima che gli studenti nutrono per il docente, prescinde dai loro interessi. Non si tratta di essere insegnanti bravi, preparati, formati, sensibili, empatici. Il punto è che si distraggono facilmente. Non è facile, per nessuno di loro, mantenere la concentrazione in classe.
In verità, questa generazione di studentesse e studenti possiede un’intelligenza brillante, un’intuizione che mette qualsiasi adulto con le spalle al muro (e si capisce da come usano l’ironia). L’attitudine, a cui accennavo all’inizio, di dedicarsi a più cose contemporaneamente senza perdere la capacità di capire chi sia la persona che sta dietro la cattedra è indice di questa intelligenza. Ho provato a chiedere a qualcuno di loro le motivazioni del loro bisogno continuo di guardare altrove e che cosa potessimo fare noi insegnanti per invertire questa tendenza e le risposte sono state declinate in modi diversi, ma nella sostanza tutte andavano verso un nucleo comune: la noia, la ricerca di stimoli nuovi, l’insicurezza.
P., quarta liceo, mi ha detto: «Riesco a seguire più cose contemporaneamente, per me è impossibile stare con gli occhi fissi sul professore per tutta l’ora, non mi basta». Le ho chiesto se il cellulare la aiutava a colmare questa noia. «Non è il cellulare il problema. Tra l’altro in classe dobbiamo tenerlo spento o consegnarlo. È che devo seguire i miei pensieri, fermarmi e prendermi una pausa».
R., terza informatica, sostiene che «se sto troppo tempo ad ascoltare spiegazioni o interrogazioni ho la sensazione che mi sfugga tutto il resto». A cosa ti riferisci? «Al resto, cioè gli amici, la ragazza, le cose da fare fuori scuola».
N., seconda liceo, sta quasi sempre sdraiato sul banco e si anima solo quando si parla di cinema e di politica: «La scuola mi interessa, ma a un certo punto mi annoio». Cos’è che ti annoia? «Mi sembra che non mi riguardi».
E., quinta informatica, dichiara che «Mi piacciono le lezioni frontali ma solo se chi le fa è divertente». Le ho chiesto di spiegarsi meglio e lei ha detto che «se il professore non mi diverte io mollo dopo cinque minuti».
Ne ho ascoltati almeno venti: studenti attuali, ex studenti, ragazzi che frequentano istituti professionali, tecnici, licei classici, delle scienze umane, scientifici. Non c’è grande differenza tra scuole del centro e scuole di periferia, a questo riguardo. E non sto parlando di studenti con deficit dell’attenzione certificato.
Sintetizzando, sui grandi numeri (perché le eccezioni esistono): i ragazzi preferiscono le immagini alle parole. La parola scritta (i libri) sta perdendo fascino e interesse ai loro occhi perché richiede troppa concentrazione.
Che cosa può fare la scuola? Che cosa possono fare gli insegnanti per rimediare a questo vulnus, oltre a essere preparati, formati, sensibili, oltre ad applicare le opportune metodologie didattiche durante le lezioni? Me lo chiedo, ve lo chiedo.
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