Il centro del mio quartiere è un reticolato di viuzze sghembe dove convivono palazzine del secolo scorso, orridi eredi degli anni del boom e una manciata di case di ringhiera – un moto costante tra l’attrazione gentrificante delle prime cerchie e il suo essere orgogliosamente periferico. Lì, tra una saracinesca che non viene sollevata da chissà quanto e un parrucchiere per uomo, c’è un piccolo negozio di piante e fiori. Ogni mattina il proprietario invade l’acciottolato con i suoi vasi, tanto che, sbirciando oltre la vetrina, viene da chiedersi dove nasconda tutta quella roba la notte.

Un sabato di qualche settimana fa mi sono fermato di fronte a un glicine: giovane ma robusto, si attorcigliava attorno al suo sostegno di bambù per quasi due metri d’altezza. E con una fioritura di tutto rispetto, se si pensa alla vita che stava vivendo: dentro, saracinesca abbassata, saracinesca alzata, fuori, gente che ti smanaccia, gente che saggia la tua consistenza, gente che disserta sull’esatta gradazione di viola dell’inflorescenza.

L’ho comprato, portato a casa, trapiantato in un grosso vaso. Quattro giorni dopo, sono caduti i fiori. Otto giorni dopo, molte foglie sono diventate gialle. Dieci giorni, e si sono fatte marroni, poi si sono accartocciate e sono precipitate giù. Infine, il glicine si è adattato al nuovo vaso, alla nuova esposizione, si è acclimatato: ha cercato un diverso modo di autorappresentarsi nello spazio. Sono spuntate nuove inflorescenze, sono cresciuti nuovi rami e, crescendo, hanno cominciato ad attorcigliarsi alla ringhiera.

Raccontare l’epopea di quel ramo che si arrampica sulla balaustra, il linguaggio non verbale grazie a cui interagisce con l’altro da sé e comprende che proprio là, e non in un altro punto, un germoglio deve spuntare e proprio lì, e non in un altro punto, un bocciolo va sacrificato, ecco, tutto questo è narrativa ambientale. Uno degli infiniti modi in cui può declinarsi la climate fiction.

La sfida

«In un mondo sostanzialmente alterato, un mondo in cui l’innalzamento del livello dei mari avrà inghiottito le Sundarban e avrà reso inabitabili città come Kolkata, New York, Bangkok, i lettori e i frequentatori di musei si rivolgeranno all’arte e alla letteratura della nostra epoca cercandovi innanzitutto tracce e segni premonitori del mondo alterato che avranno ricevuto in eredità. E non trovandone, cosa potranno, cosa dovranno fare, se non concludere che nella nostra epoca arte e letteratura venivano praticate perlopiù in modo da nascondere la realtà in cui si andava incontro?»

Con queste parole, lo scrittore indiano (di lingua inglese) Amitav Ghosh, in La grande cecità, ha sganciato un ordigno che, negli anni successivi, non avrebbe smesso di deflagrare. Era il 2016, e la sua era una chiamata alle armi rivolta ai colleghi romanzieri. La constatazione da cui partiva Ghosh era semplice ed efficace: il cambiamento climatico, l’emergenza climatica, è la sfida più grossa che gli esseri umani si siano mai trovati ad affrontare; com’è possibile che non sia al centro di gran parte delle migliaia di storie di finzione che ogni settimana inondano il mercato? Com’è possibile, anzi, che non sia presente in quasi nessuna?

Negli anni successivi, le suggestioni di Ghosh, pur entrando raramente nel dibattito letterario mainstream, un po’ di breccia l’hanno fatta e la climate fiction ha cominciato a essere praticata anche al di fuori dei generi dove fino a quel momento era stata confinata: fantascienza, fantastico, tutt’al più realismo magico.

Di nuovo Ghosh: «Trattarli (gli eventi climatici del nostro presente) come magici o surreali significherebbe defraudarli proprio di ciò che rende così urgente parlarne, e cioè che accadono davvero, su questa Terra, adesso». Allo stesso tempo, i generi hanno continuato a ibridarsi, i lettori a incuriosirsi.

Un lento sdoganamento 

È poi successo che di tanto in tanto la climate fiction è spuntata tra le classifiche dei libri più venduti e tra quelli ammessi ai premi di cartello. Un’opera non definibile in nessun modo se non sotto il cappello della narrativa ambientale ha vinto il Pulitzer (Il sussurro del mondo, Richard Powers); una distopia (Il muro, John Lanchester) è stato nominato al Booker Prize; un’autrice scandinava è stata tradotta in tutto il mondo con una trilogia dedicata al clima (Maja Lunde), giusto per citare tre esempi che hanno avuto buona risonanza. Nel frattempo, sono stati riscoperti le autrici e gli autori che per primi hanno esplorato questi territori, a cominciare da una delle più grandi, Ursula K. Le Guin.

E in Italia? Bruno Arpaia (Qualcosa là fuori), Laura Pugno (Sirene), Fabio Deotto (Un attimo prima). Più recentemente, Giacomo Bevilacqua (la graphic novel Troppo facile amarti in vacanza), Paolo Giordano (Tasmania), Ginevra Lamberti (Il pozzo vale più del tempo), Michele Vaccari (Urla sempre, primavera), Mauro Garofalo (L’ultima foresta).

Addentrandoci nella critica, Niccolò Scaffai (Letteratura e ecologia, ma anche l’antologia Racconti del pianeta Terra). Tutti libri di cui si è parlato, nessun bestseller. È poi notizia recente la cinquina dello Strega conquistata da Paolo Di Paolo (Romanzo senza umani), che forse contribuirà a sdoganare la letteratura ambientale tra il cosiddetto grande pubblico italiano.

La sproporzione 

Ovviamente c’è dell’altro (la collana 42Nodi di Zona42, la collana Il bosco degli scrittori di Aboca), ma appare evidente la sproporzione rispetto al romanzo “classico”, quello di impronta borghese che è andato sviluppandosi nell’Ottocento e che non ha subito poi troppi cambiamenti dai tempi di Madame Bovary a oggi. Sono pochi i romanzi in cui l’ambiente abbia un ruolo, e non per forza di primo piano. Non riesco a spiegarmelo: la crisi climatica è ovunque, ci siamo letteralmente immersi dentro.

In fin dei conti, qualsiasi romanzo scritto oggi, negli anni Venti del Duemila, dovrebbe essere anche climate fiction; o meglio, nessun romanzo dovrebbe essere climate fiction, perché la questione climatica è così centrale nel nostro mondo – l’iperoggetto per eccellenza, utilizzando la felice espressione coniata da Timothy Morton –, così pervasiva e onnipresente, che ciascun romanzo di ambientazione contemporanea che abbia l’ambizione di essere realista dovrebbe, in qualche modo, metterla in scena. Sempre che si voglia continuare a raccontare le nostre storie fingendo che la città attorno a noi non stia affondando, e noi con lei.


Michele Turazzi è il vincitore della sezione Narrativa del Premio Demetra, con il romanzo Prima della rivolta, pubblicato da Nottetempo. Il Premio Demetra è dedicato ad autori e editori indipendenti che approfondiscono nelle proprie opere temi legati a ecologia, ambiente e cambiamento climatico promosso da Comieco ed Elba Book Festival. La premiazione delle opere vincitrici di ogni sezione avverrà nell’ambito di Elba book Festival a Rio nell’Elba il 19 luglio 2024.

© Riproduzione riservata