- Avendo scoperto Philip Roth nella fase in cui era già un grande della letteratura, non lo avevo mai letto inserito nel contesto di polemiche letterarie che circondavano le sue prime opere
- La biografia di Blake Bailey mi aiuta quindi a scoprire con direi dovizia di fonti private e pubbliche quell’aspetto dinamico dell’opera di Roth che fu la reazione immediata dell’immaginario collettivo a ogni libro
- Se gli è stato possibile tenere duro e affrontare gli insuccessi fino ad arrivare alla maturità degli anni Novanta, è perché Roth si è battuto solo per una cosa: avere tempo, spazio e soldi per scrivere
Se c’è uno scrittore che ha esplorato al massimo le tre fasi della vita letteraria sintetizzate da Arbasino, quello scrittore è Philip Roth. Brillante Promessa che vince il National Book Award all’esordio (Addio, Columbus), si trasforma in vituperato Solito Stronzo dopo il successo astronomico del quarto libro, Il lamento di Portnoy, che spinge i critici a diffidare di qualunque dei suoi esercizi sul rapporto realtà-finzione (e sul rapporto Céline-Flaubert, ossia voce scatenata e repellente contro ordine assoluto della prosa); e infine come l’ho conosciuto io all’inizio degli anni Duemila: Venerato Maestro, soprattutto per aver accantonato l’autoanalisi ossessiva per dedicarsi alla storia americana con la trilogia di Pastorale americana, Ho sposato un comunista e La macchia umana.
Roth nel suo contesto
Avendolo scoperto, come molti miei coetanei, a questo punto del suo cammino, non ho vissuto in diretta i decenni in cui Roth è stato controverso, e in cui i giornali hanno discusso in tempo reale la sua vita sentimentale e le sue colpe o meriti letterari: tutti ingredienti che confluivano immancabilmente nei libri successivi, alimentando le incomprensioni con la critica e i continui innamoramenti e disamoramenti del pubblico.
Ho quindi letto esperimenti come Portnoy, I fatti, La controvita, Operazione Shylock come tanti giochi fatti fuori dal quotidiano e dall’attualità. Le mille pagine del Philip Roth di Blake Bailey, Einaudi, quindi, mi aiutano a scoprire con direi dovizia di fonti private e pubbliche quell’aspetto dinamico dell’opera di Roth che fu la reazione immediata dell’immaginario collettivo a ogni libro, e il modo, a volti clamoroso a volte fallimentare, con cui Roth suonò i suoi critici e i suoi lettori come fossero strumenti musicali essenziali alla riuscita del libro.
In questa storia della vita di Roth, Bailey usa forme di pastiche molto affini al suo oggetto – giornali, pettegolezzi, targhe commemorative, conversazioni – per ricostruirne la vita. È dunque un appassionante e inevitabile ultimo atto da leggere per chi ha amato i libri di Roth e ancora di più la dinamica della sua bibliografia, che, come diceva lui, era fatta di continui rovesciamenti tra lo stimolo a rompere tutto, a «usare il repellente», a fare il depravato, e il suo lato di «bravo ragazzo ebreo», quello flaubertiano, quello che inseguiva i premi letterari e la serenità invece dello scandalo.
Un autore fuori moda
Questo libro è piacevole proprio perché, grazie alla tecnica di Bailey, diventa quasi indistinguibile da un libro di Roth. Intanto perché la voce di Roth – sia dalle fonti sia dalla collaborazione diretta con Bailey negli ultimi anni della sua vita – è onnipresente e gestita in modo molto piacevole, quasi proprio per dare piacere più che per informare, e poi perché sono presenti tutti i suoi nemici, e dunque suona assolutamente come un romanzo di Roth.
Oggi, un romanzo di Roth, chi lo legge? Sono passati pochissimi anni dalla morte di uno dei grandi scrittori americani del secondo Novecento, ma la sua vecchiaia è coincisa con il Me Too, che ha portato a un cambio di paradigma abbastanza deciso da far suonare molti temi di Roth improvvisamente fuori moda. I rapporti di un uomo benestante con le sue amanti, e i pessimi rapporti con le mogli, non sono più un tema capace di suscitare particolare empatia. Perché questo è il modo in cui è stata inquadrata l’ossessione sessuale di Roth, dall’onanismo scatenato di Portnoy al priapismo impenitente di Mickey Sabbath.
Non si può liquidare questo punto di vista, e la relativa sensibilità, e in effetti alla cinquantesima tresca agrodolce raccontata nel libro viene voglia di saltare a pié pari le parti sulle relazioni. Ma in Roth la questione di poter davvero desiderare, di avere una libido libera di posarsi sugli oggetti del desiderio, è stata una questione fondamentalmente storico-politica.
Nato in New Jersey da una famiglia ebrea arrivata in America molto presto, Philip, il bravo ragazzo amante della letteratura e delle ragazze, osservò da lontano il destino riservato agli ebrei rimasti in Europa e poi a quelli andati a colonizzare la terra santa d’Israele, e nel farlo mantenne uno stato permanente di meraviglia e choc culturale davanti alle possibilità che invece si spalancavano, come i grandi spazi aperti americani, davanti a un giovane ebreo che con un po’ di fortuna in meno sarebbe morto in un campo di concentramento senza aver concluso le scuole elementari.
Nel nuovo mondo
È questo lo choc che gli permette di vivere con ingordigia l’esperienza americana. Che gli permette di dedicarsi al suo sviluppo individuale, al di fuori di qualunque logica collettiva, di dedicarsi alla propria carriera letteraria in maniera quasi religiosa: è finito il vecchio mondo, nel nuovo mondo ci si può dedicare a sé stessi senza finire in incubi… kafkiani. Ritorna spesso Kafka nella sua vita letteraria, come re del paradosso e della sfortuna. E ritorna pure Anne Frank, che nel fondamentale Lo scrittore fantasma scatena delle allucinazioni con senso di colpa nel suo alter-ego Nathan Zuckerman.
Grazie a Zuckerman, che narrerà al posto suo i tre libri della trilogia americana, Roth smetterà di essere associato solo al sesso e all’ossessione individualista per dimostrarsi (poi anche con l’ucronia del Complotto contro l’America) un vero poeta epico della storia americana pur senza tradire la commedia umana e beffarda di Flaubert e Balzac.
Se gli è stato possibile tenere duro e affrontare successi fuorvianti e insuccessi umilianti fino ad arrivare alla maturità degli anni Novanta, è perché Roth si è battuto solo per una cosa: avere tempo, spazio e soldi per scrivere. Queste mille pagine, pur parlando fin troppo di relazioni amorose che non sembrano valere granché, sono un inno all’era perduta in cui si poteva campare con la scrittura (anche quando non si vendeva troppo). Per uno scrittore di oggi è quasi pornografia leggere della villa che si comprò in Connecticut e che fu ribattezzata The Fiction Factory, la fabbrica della finzione, perché dedicata quasi esclusivamente alla scrittura.
Roth voleva solo essere uno scrittore, e anche se sembra aver passato la vita a scandalizzare e a farsi volutamente fraintendere, con una tenacia da americano appena assimilato ha chiesto all’America di regalargli l’unico vero sogno che aveva: una stanza tutta per sé, per fare lo scrittore. Forse per questo fece sempre finire malissimo le sue storie d’amore.
Philip e gli altri
Se Roth è riuscito a vivere da scrittore, è anche grazie a una doppia presenza molto forte in tutta la sua biografia: quella di due grandi autori ebrei americani precedenti, molto diversi tra loro. Saul Bellow fu il primo vero ebreo venuto dall’Europa a gustarsi la cornucopia americana; Bernard Malamud invece si tirò dietro certe sensazioni da shtetl, un’eredità difficile da abbandonare, un ordine morale fortissimo. Questi due padrini, che Roth amò anche se fu ricambiato solo in parte, o nel modo ambivalente tipico dei padri, completano con Roth un terzetto che da sé vale tutta un’ala della letteratura americana.
A chi abbia deciso di leggere questa biografia, quindi, è obbligatorio consigliare di leggere, insieme, I Netanyahu di Joshua Cohen, recente Premio Pulitzer per la narrativa. Nel suo piccolo romanzo, nato come omaggio al grande critico scomparso Harold Bloom, e basato sull’incontro accademico tra Bloom e il professore padre di Benjamin Netanyahu, Cohen fa un pastiche per celebrare e ragionare sulla letteratura americana reinventata da questi tre scrittori – amati e canonizzati da Bloom – durante gli anni terribili in cui gli ebrei fecero i conti con l’eredità dell’olocausto, la scoperta di Israele e l’alternativa americana.
Con o senza l’aiuto di Joshua Cohen, vale la pena ricordare che se Philip Roth è a volte sembrato uno scrittore troppo preso dal proprio ombelico e dal proprio pene è forse semplicemente perché, in quel momento, non c’era niente di più antitetico all’orrore della storia che sentirsi liberi di analizzare, semplicemente, due parti del corpo o della psiche. Forse non è un lascito universale, ma non si può far finta di non capire.
Philip Roth. La biografia (Einaudi 2022, pp. 1056, euro 26) è un libro di Blake Bailey
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