Un documentario di Simona Risi sul pittore lo racconta a partire dalla sua condizione di immigrato in Francia. E sceglie come voce narrante l’attrice iraniana Mina Kavani, fuggita dal suo paese per le minacce subite
C’è un quadro di Pablo Picasso che risale al 1900, all’inizio della sua carriera e di un secolo intero, che ha già in sé l’aspetto più politico dell’artista. Si intitola Gruppo di catalani a Montmartre. Nel dipinto lui e i suoi amici, stranieri come lui, sono raffigurati come dei criminali. «Si rappresenta come viene visto dai francesi, dalla polizia», spiega la storica Annie Cohen-Solal nel documentario Picasso. Un ribelle a Parigi. «Non parla di lui, ma della xenofobia».
Il film, diretto da Simona Risi e scritto da Sabina Fedeli, Didi Gnocchi e Arianna Marelli, in sala per tre giorni dal 27 novembre, racconta l’artista partendo proprio dalla sua condizione di immigrato. Arrivato in Francia da Malaga, dove era cresciuto in una famiglia modesta, Picasso non prenderà mai la cittadinanza francese: gli era stata rifiutata quando l’aveva richiesta nel 1940, sperando lo proteggesse dai nazisti e dai franchisti, e da allora non farà mai più domanda nemmeno quando sarà il paese a proporgliela, pur avendo vissuto lì per gran parte della sua esistenza, fino alla morte, 50 anni fa.
Artista celebre e uomo in fuga, schedato dalla polizia come anarchico e costretto a presentarsi ogni due anni alle autorità per dare le impronte digitali, il pittore tradurrà la propria estraneità nelle sue opere. «Picasso non permette che lo sguardo dell’altro lo trasformi in qualcosa che non è», dice l’attrice Mina Kavani, voce narrante del documentario.
Storie di fuga
Non è un caso che la ricostruzione della storia di Picasso spetti a Kavani: come spiega lei stessa, hanno in comune l’essere artisti in terra straniera, guardati con sospetto per le proprie azioni o per la proprie idee. Nata a Teheran, Kavani ha iniziato a recitare fin dall’adolescenza e si è trasferita a Parigi nel 2010 per studiare al Conservatoire Supérieur National d’Art Dramatique. Dal 2014 la Francia è diventata il suo paese a tutti gli effetti, dopo che lo scandalo e le minacce seguite alle scene di nudo nel film Red Rose l’hanno costretta ad autoesiliarsi dall’Iran.
La condizione di espatriato obbliga l’artista a interpretare continuamente se stesso per avere il controllo della propria narrazione: di recente Kavani ha recitato anche nell’ultimo film di Jafar Panahi, Gli orsi non esistono, dove interpreta un’attrice che si interroga sul lasciare il paese in cui vive. Panahi, regista di Taxi Teheran, accusato di propaganda contro il governo iraniano e imprigionato più volte, tanto che ha dovuto girare il film da remoto, interpreta invece sé stesso proprio nell’atto di girare un film a distanza, stando in un villaggio di confine. È un’opera metanarrativa, dove emerge sopra ogni altra cosa la mancanza della libertà: di muoversi, di amare chi si vuole. Il film era stato premiato a Venezia nel 2022, ma Panahi non aveva potuto ritirarlo, perché detenuto: è stato scarcerato a febbraio.
Le maschere
La macchina da presa, nel documentario, rimbalza tra le strade di Parigi e l’interno del museo Picasso, sempre nella capitale francese, che contiene la collezione di opere più vasta al mondo, con 6mila dipinti e 200mila pezzi di materiali d’archivio. Mina Kavani si trova in un classico caffè parigino, o dentro un circo. «Il circo nel nostro documentario è una metafora della complessa personalità del protagonista e del suo sempre difficile equilibrio tra gli opposti», ha spiegato Simona Risi nelle sue note di regia. Picasso ha indossato maschere per tutta la sua esistenza: da lì la fascinazione per gli acrobati, il loro trucco esagerato.
Ma i circensi sono anche creativi senza una casa, in continuo movimento: stanno al limitare della società. Picasso è diventato, già in vita, uno degli artisti più famosi al mondo, eppure «penso che sia rimasto fino alla fine un artista piuttosto orgoglioso della sua marginalità», dice Cécile Debray, direttrice del museo. Immaginandolo nella modernità, il documentario lo colloca al 50 Rivoli, un edificio occupato, ora riconosciuto dal comune di Parigi, dove lavora una comunità di artisti alternativi.
Le ombre
“Duplicità” è quindi un termine che ricorre a più riprese riferito al pittore, non solo quando si parla del suo status. I critici e gli studiosi intervistati devono affrontare un lato dell’artista da cui non possono prescindere: «l’egoista, il narciso, il prevaricatore». Dora Maar, con cui ebbe una relazione, scrisse di lui: «Pablo è uno strumento di morte, non è un uomo, è una malattia. Non un amante, ma un padrone». Le sue parole sono riprese da Mina Kavani: anche quanto raccontato da Françoise Gilot, che, poco più che ventenne, aveva conosciuto l’artista ormai sessantenne e aveva avuto due figli con lui, riporta un uomo che fa di tutto per mortificare la compagna.
Il dubbio che si pongono gli autori del documentario è sempre quello: dove posizionare il confine tra vita e arte, tra l’opera e l’artista. La storica dell’arte Marie-Laure Bernadac ha scelto di separare il proprio «impegno femminista dallo studio dell’opera», contestualizzando il carattere di Picasso nel XIX secolo, mentre per l’artista nigeriana Obi Okigbo è più importante focalizzarsi su quello che il pittore ha lasciato, che nel suo caso ha molto influenzato la sua stessa creatività. Nelle sue opere, tuttavia, non si può negare l’autobiografia: «Ogni quadro che dipinge è una goccia del suo sangue», ricorda Kavani, citando lo stesso Picasso.
Se il contesto del Novecento viene richiamato da diverse delle persone interpellate, lo storico dell’arte Eugenio Carmona cita quanto disse il contemporaneo Jean Cocteau sulle compagne dell’uomo: «Il problema di Picasso è che se ne impadroniva, le fagocitava». Non c’è una risposta collettiva, anche al di fuori del perimetro del documentario: ognuno ha scelto un proprio approccio nel tentare di conciliare il manipolatore, l’abusante, con la sensibilità attesa dal genio artistico. Si resta in bilico, di nuovo, sul doppio.
Il ricordo oggi
Nel traghettare Picasso verso la modernità e quello che si può mantenere oggi, Carmona invece fa riferimento alla sua transculturalità, al suo muoversi in gruppi diversi. Les demoiselles d’Avignon per lo storico «pone lo spettatore, uomo bianco, europeo, eteropatriarcale, eteronormativo, misogino davanti a un’opera in cui si ritrae come guardone». Lo sguardo delle donne ritratte è uno sguardo di condanna, e allo stesso tempo secondo Carmona è possibile leggerla oggi come un quadro queer: «C’è qualcosa di mascolino e femminile» nelle figure rappresentate.
Ricco e comunista, celebre come una pop star e considerato sovversivo, l’eterno straniero: questo passa di Picasso nel contemporaneo, dove uno dei suoi quadri più famosi, Guernica, dipinto nel 1937 all’indomani dell’attacco alla città basca, è ancora citato per denunciare tutti i fascismi. Allora gli aerei tedeschi e italiani, in supporto alle truppe dei franchisti, bombardarono la cittadina, distruggendola in buona parte: fu una strage di civili.
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