Piccole cose come queste (Small Things Like These) è il titolo di un piccolo grande film prodotto e interpretato da Cillian Murphy. Al centro della storia sono gli asili escclesiastici già raccontati da Peter Mullan e Stephen Frears, dove le ragazze madri venivano recluse per espiare tra schiavitù e abusi. Per gli ordini cattolici che le gestivano, il mercato dei neonati illegittimi è stato per due secoli un lucroso business favorito dal governo
Scherzi della memoria: può offuscare le cose importanti, ma le piccole cose sono indelebili. A proposito di un Cillian Murphy ancora lontano dalla iconica serie Peaky Blinders e dall’Oscar per Oppenheimer ricorderò sempre una conversazione con Ken Loach ai tempi di Il vento che accarezza l’erba. Nel 2006 era in concorso a Cannes – avrebbe poi vinto la Palma d’oro – e Murphy era il protagonista del film. Loach non ha mai scelto attori famosi, ma incarnando The Straw Man, lo Spaventapasseri di Batman Begins, Cillian Murphy era già diventato una star da mainstream.
L’anomalia mi incuriosiva. Il mio amico regista, beatamente ignaro delle graduatorie da box office, mi raccontò allora come l’attore irlandese, un perfetto sconosciuto per lui, gli avesse dato il tormento, aggirandosi per i suoi set, per entrare nel cast. Come chiunque lavori con Loach, beninteso, a paga sindacale. La simpatia speciale, o l’antipatia, che coltivi per certi artisti spesso nasce da dettagli accidentali, da queste piccole cose.
Piccole cose come queste (Small Things Like These) è il titolo di un piccolo grande film prodotto e interpretato da Cillian Murphy uscito da noi con Teodora il 28 novembre. Per la natura della storia, per l’intensità fuori serie del protagonista e dei suoi comprimari (Emily Watson ha ottenuto l’Orso d’argento a Berlino), nonché per il minimalismo geniale di Tim Mielants – lo stesso regista di Peaky Blinders – non riesco a scinderlo da quel lontano episodio.
Al centro della vicenda sono le stesse famigerate Case Magdalene, le Magdalene Laundries irlandesi, già raccontate (soprattutto) da Peter Mullan in The Magdalene Sisters (2002) e in versione agrodolce da Stephen Frears con Philomena (2013). Erano gli asili ecclesiastici riservati alle ragazze madri, pubbliche peccatrici recluse per espiare e riabilitarsi tra schiavitù, abusi estremi e privazione dei figli. Per gli ordini cattolici che le gestivano il mercato dei neonati illegittimi è stato attraverso più di due secoli un lucroso business favorito dal governo.
Qui lo sguardo è radicalmente diverso dai titoli precedenti. È più indiretto, sottile e struggente. Trasferisce il perno drammatico dentro il silenzio delle comunità che gravitavano intorno a queste prospere istituzioni cattoliche. Merito anche del bel romanzo su cui il film è basato, Piccole cose da nulla (Einaudi) di Claire Keegan. Un racconto della scrittrice irlandese, The Quiet Girl, ha già avuto una notevole trasposizione cinematografica che vale la pena di recuperare. Se appartenete alla tribù cinefila che resta seduta anche per i titoli di coda scoprirete tra i produttori anche i nomi di Matt Damon e Ben Affleck: un bonus in più nel corredo non guasta.
Il carbonaio Cillian Murphy
L’aggettivo "quieto”, caro all’autrice, non stonerebbe per il lavoro potente di Murphy e per le emozioni che comunica. Nell’Irlanda di metà anni Ottanta, contea di Wexford, Bill Furlong fa il carbonaio: un brav’uomo silenzioso e frugale, con cinque figlie femmine da mantenere e un bilancio domestico in cronico rosso. Grazie alla scuola locale di suore può far studiare gratis le grandi e augurarsi un’elemosina uguale per le piccole. Il lusso di fine anno, faticosamente sudato, è un paio di scarpe nuove per sua moglie (Eileen Walsh, che era anche nel film di Mulan).
Il Natale è vicino e l’indigenza pudìca di chi è più bisognoso di lui fa riaffiorare memorie d’infanzia sepolte, che gli tolgono il sonno. (C’è molto Charles Dickens, nel film, direttamente o indirettamente evocato. Dei romanzi di Dickens parlava a Bill la benefattrice che lo ha allevato, e adesso da adulto vorrebbe finalmente leggere David Copperfield. Dickensiani sono il tono e lo stile, ma senza i riscatti consolatori della letteratura). Nelle sue veglie notturne il carbonaio rivede in flashback la sua mamma senza marito, la signora benestante che lo ha aiutato e protetto anche da orfano e un Natale che gli ha portato, bambino, una borsa per l’acqua calda al posto di un puzzle, unico e irraggiungibile sogno. Di questi suoi vecchi dolori segreti le figlie sono all’oscuro. «Desideravi solo un puzzle?» gli chiedono sorprese quando accenna a quel regalo mancato. I Furlong sono gente povera, ma esistono infiniti gradi di povertà.
Il potere delle Magdalene Sisters
I ricordi diventano consapevolezza lancinante quando Bill, consegnando all’alba i suoi soliti sacchi di combustibile alle suore, trova una ragazzina chiusa nella carbonaia. Sarah ha quindici anni e ha paura. È una fallen woman in punizione, relegata incinta al buio e al freddo. Implora aiuto. Per riconsegnarla alle suore il carbonaio deve varcare la soglia dell’istituto, preclusa agli esterni. E vede la stessa paura, la stessa disperazione muta, negli occhi delle altre assistite. In loro riconosce sua madre, la sua condizione di esclusa dalla comunità e la sorte cui è sfuggita solo per caso. Il suo vissuto gli impedisce di condividere il marchio d’infamia sulle "svergognate” a cui perfino sua moglie dà voce. Ma è solo adesso che riunisce i puntini e compone tutto il disegno di quella sua storia non detta.
Il confronto che segue con la glaciale Madre Superiora (Emily Watson) è un gioiello di sfumature. Confronto si fa per dire, perché per il subalterno più che altro parlano gli occhi. Sister Mary invece parla molto, ma per sottintesi. Deve travestire da carità minacce e ricatto. Il testimone involontario è vincolato al silenzio. C’è un codice di omertà condiviso, e prezzi altissimi per chi lo infrange. Chi sono le prossime figlie da accogliere a scuola? Cosa farà la grande dopo il diploma? Il convento è un cliente prezioso, e salda i conti solo a lunga scadenza. In più c’è una generosa "bustarella”, infilata in un biglietto d’auguri opportunamente annotato, da portare alla moglie. Bill non la rifiuta, ma non consegna la busta. La ribellione è iniziata, e spoilerare sarebbe un delitto.
Il dio delle piccole cose
C’è un gesto simbolico che diventa il leit motiv del film. Ogni sera, finite le sue consegne di carbone e legname, Bill si lava a lungo le mani annerite nel lavandino, sfregandole con una furia da levare la pelle. La metafora è trasparente. Prova a lavare via un dolore che non si cancella. È un uomo buono che nella vita cerca di fare la cosa giusta, contro il consiglio della consorte: «Ci sono cose che bisogna ignorare». Se ce la fai. "Se”.
New Ross, la cittadina del film, è una ragnatela di strade strette e di porte chiuse come le bocche dei suoi abitanti. Tim Mielants gioca su un senso di oppressione costante e sulla fotografia livida del suo conterraneo belga Frank Van Den Eeden, evitando ogni forzatura retorica. Il romanzo al regista lo ha proposto l’attore Oscar, prima dell’Oscar. In un passaggio del libro si legge: «Era possibile tirare avanti per anni, decenni, una vita intera senza avere per una volta il coraggio di andare contro le cose com’erano e continuare a dirsi cristiani, a guardarsi allo specchio?». Sull’ultima inquadratura capisci che il finale perfetto non è un’utopia. Il “dopo” scadrebbe nel melodramma. Il dio delle piccole cose per Cillian Murphy probabilmente ha riguardi speciali.
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