- Questa puntata di “Una donna che scrive” è dedicata a Piera Oppezzo, donna algida e solitaria, poeta sconosciuta ai più, che lavorava per sopravvivere ma viveva per scrivere. Qui potete ripercorrere la sua storia e trovate una selezione di brani per riscoprirne l’opera.
- “Una donna che scrive” è in partnership con Muri di Versi, nato come festival di socialità poetica a Bologna nel 2015.
- L’obiettivo è «portare la poesia fuori dagli ambienti accademici, sfruttare il suo potere di collante sociale e culturale, restituire la poesia alla gente»; dal 2018 Muri di Versi è pure associazione culturale.
«Ma io ero pietra, / ero gelo o fiamma, / febbre o abbandono, / ma non ero ancora…». A scrivere è Piera Oppezzo: donna algida e silenziosa, decisa e solitaria, poeta sconosciuta ai più, si è mossa nei sentieri della poesia lasciando dietro di sé poche, ma indelebili, tracce. Di lei rimangono soltanto le testimonianze di coloro che l’hanno incontrata e due scatole di cartone con “le sue cose”, affidate all’amico Luciano Martinengo poco prima di morire.
Piera Oppezzo nasce a Torino il 2 agosto 1934, poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, che la circonderà di «quei boati fra le valli / che mi toglievano all’infanzia». La sua famiglia proviene da un ambiente umile, e lei è costretta dalla necessità a lavorare; è così che, ancora bambina, prende impiego come aiuto sarta, frequentando soltanto la scuola domenicale.
Cambiando i più disparati impieghi, Piera continua a lavorare, o meglio: a lavorare per sopravvivere, ma a vivere per scrivere. Infatti, Oppezzo comincia a scrivere molto presto (quando non si sa, ma nei famosi scatoloni sono rimaste poesie che risalgono al 1952). In questi versi, inediti fino a quest’anno, c’è la quotidianità di una giovane donna, il cui «dolce amore per la vita è snervante e imperfetto». Piera si lascia incantare, a volte dall’amore, a volte dal jazz, altre dal «Verde e azzurro / intorno», eppure soffre spesso, sopraffatta da uno «scattante dolore / puntuale presente quotidiano».
Altro tema che compare in questi suoi primi versi è quello del lavoro, sempre visto – in perfetta linea con quello che sarà il pensiero dei movimenti rivoluzionari negli anni Settanta – come costrizione e alienazione: «I poveri giorni / in cui si crede veramente / di essere la persona / che compie il lavoro quotidiano». Eppure, è proprio in un contesto lavorativo – in quel momento Oppezzo era dattilografa in Rai – che vengono scoperte le sue poesie. I suoi versi cominciano ad essere pubblicati in diverse riviste, per poi approdare nel 1966, con L’uomo qui presente, nella prestigiosissima Collana Bianca Einaudi (e pensare che l’unico altro poeta italiano pubblicato dalla casa editrice in quello stesso anno fu l’inestimabile Cesare Pavese!).
“L’uomo qui presente” è l’essere umano contemporaneo, costretto in un «Mondo attualmente esaurito figurativamente / su scatole tubetti risvolti / interno d’autobus cantieri», e, per dirla sempre con i suoi versi, «nell’attuale mondo confezionato / con qualità d’apparenza altamente reclamizzate / ovvero un falso autentico rispetto alla natura / e più stipato di fatti e oggetti». Continua dunque l’oggettiva denuncia della realtà, che di rado lascia spazio a sentimenti (e a sentimentalismi tanto meno). Nella poesia, così come nella vita, di Piera non c’è tanto spazio per le relazioni, spesso vissute con evasività e distanza, come ci raccontano le persone che l’hanno conosciuta.
Il Sessantotto è alle porte e la poeta, lasciandosi alle spalle il clima culturale torinese nel quale ormai si era inserita, si trasferisce a Milano. Sono gli anni dell’attivismo femminista e dell’impegno politico nella sinistra extraparlamentare, della grande speranza che nutre la scrittura di “1967 Sì a una reale interruzione” (intensa plaquette pubblicata, dopo la chiusura con Einaudi, nelle Edizioni Geiger solo nel 1976). Qui la poesia di Oppezzo, contro ogni stereotipo sulla scrittura femminile, si fa totalmente concettuale, quasi militante. Attraverso un linguaggio duro e scarnificato la poeta si fa portatrice delle «CONTESTAZIONI TOTALI CONTINUE» che in quel momento guidavano i movimenti rivoluzionari, a Milano e in gran parte del mondo.
Dunque, il primo periodo milanese è rigoglioso per la poeta, che finalmente può riemergere da quel dolore così profondamente annidato in lei: «E adesso, tra le rovine del mio essere, / qualcosa, una ferma utopia, sta per fiorire». Quella sua decisione di mutare il mondo per un momento la spinge oltre sé stessa, le dà la forza di «scavalcarsi, finalmente»; ma svaniti i fumi del Sessantotto, la sofferenza di Piera sembra riaffiorare inesorabilmente. Torna la necessità della solitudine, dell’austero isolamento – «L’astro freddo ci affascina», aveva scritto un po’ di anni prima.
Si trasferisce da sola in un appartamento della nota casa occupata di via Morigi 8, sempre a Milano. Quando non lavora, passa le ore davanti alla sua macchina da scrivere, nella piccola cucina di casa, una stanza luminosa, dove «il soffitto è la palpebra», sempre aperta all’universo altro della creazione poetica. Ogni tanto scende nel cortile comune, sempre in fermento culturale: ascolta con attenzione, parla ogni tanto – e quando parla, “la Piera”, non si può fare a meno di lasciarsi incantare. Ma Casa Morigi viene sgomberata e Oppezzo è costretta a trasferirsi in una casa “protetta” del Comune; poi un incidente domestico la costringe a una sofferta convalescenza presso l’Eremo di Miazzina, dove muore in solitudine il 19 dicembre 2009.
La figura di questa donna rimane avvolta nel mistero e la sua poesia resta indicibile, incollocabile, radicalmente fuori da ogni canone. Eppure, forse, è semplicemente come Piera Oppezzo avrebbe voluto: restare in disparte e affascinare da lontano, disfarsi nell’ombra per rifarsi in quel tanto ricercato assoluto, «perfetto / come il volo / della tua tristezza».
Sentimento ad un uomo
Come un ramo di pesco fiorito
la tua testa curva e sospesa;
alte colline, in primavera
pareti d’erba, ti custodiscono.
Nel pulviscolo e il vento
solo la tua armonia sola
mi sta aperta nel cuore
fino a domani e domani.
Ancora – sento il mio dolore
Durare in me come sogno.
(aprile 1955)
Disequilibrio
(da L’uomo qui presente, 1966)
La nostra vita
nel tempo trema tutta
di scompensi e previsioni,
di atti impersonali e indomabili
nella loro astratta espansione.
Ogni giorno
circoscritto dal tempo.
Un tempo presente, esterno
che noi seguiamo incapaci,
un po’ distrutti nello spirito
per tendenza naturale
e conseguenza logica.
L’azione
(Da "1967 Sì a una reale interruzione”, 1976)
reale impotenza
non impassibili tuttavia fermi
finché non inserito nel comportamento privato
sempre sconnesso nel suo insieme
un concetto di intervento
davanti a torture
o altra violenza organizzata
azioni dovrebbero inserirsi molto presto
perché il ritmo giornaliero
perda l’andatura di un genocidio
e la massa di astrazioni
cessi di consentire un tipo di morte
che per inerzia richiami morti successive
contro la coesistenza
troncare partecipazione indiscriminata
a valori fissati da vittorie precedenti
e gerarchie morali ridotti
per restituire a idee e azioni
la PERICOLOSITÀ PERDUTA
creando uno svolgimento
che rifiuti modelli
in tattica o strategia agire
per colpire realtà stabilite dal nemico
che esercita un ricatto sull’umanità
con preliminari molto reali
spogliare la realtà del privilegio dell’inaccessibilità
una nuova formulazione dei problemi creando
come forma di controllo
INVENZIONE CONTINUA
distruzione definitiva suppellettili
confortanti la non-libertà
CONTESTAZIONI TOTALI CONTINUE proponendo
impadroniti di tensione propria verso
realizzazione dell’uomo
è possibile tentare un livello di festa
anche ora dopo ora quotidianamente
situati male ubicati mentalmente
tuttavia quasi rilassati non troppo lontani
da uno splendore di superficie in alcuni casi
fra torture e altre dimenticanze
certo diminuiti emozionalmente
NON PROSEGUIRE introdurre cose
distribuzione parola d’ordine
cioè passare a UNA REALE INTERRUZIONE
impadroniti di tensione propria verso
realizzazione dell’uomo
Come una sciarpa troppo lunga
Per me poesia è qualcosa da dire
di molto confuso e parziale
che da tempo circola fuori e dentro.
A un certo punto mi trovo
come con una sciarpa troppo lunga
che stringe il collo
si aggancia al tacco dello stivaletto.
Mi chino e mi do da fare
per tirarla via prima che mi costringa
a camminare con una gamba sola
Quando una poesia è scritta c’è.
Prima ronzava invisibile
formicolava nella testa e nello stomaco,
in ogni caso una poesia
me la porto sul tram
le faccio vedere come tutto si muove
che c’è il sole e arriva il caldo
e le assicuro che anche lei arriverà
– parziale e precisa –
anche se rimando sempre l’ora
e preferisco lavarmi i capelli
fare qualcosa di più vago, disperdermi,
fare qualcosa dove lei ancora non c’è
ma potrebbe benissimo esserci.
(aprile 1977)
Vivente al risveglio
(Da "Andare qui”, 2003)
Quali sono. Le cose che ci stanno a cuore.
Vivente solleva il peso di questa domanda.
Avvia la mente verso il cuore e l’opposto.
La domanda subisce scontri. Crolla più volte.
Vivente appoggia la fronte alla finestra.
Vuole traslocare all’esterno l’argomento.
Si provvede di attenzione. Fa questo lavoro.
Cerca di svegliarsi si può dire.
Dopo qualche accorgimento. Aspetta.
Passioni nuove? Solo toni giusti per nominare.
Toni neutri. Per ripetere senza sfarzo.
Al viavai dei corpi in strada ormeggia.
Per le cose a suo nome trova il la poco più in là.
La domanda affolla facce di risposta.
Linee. Lineamenti in montaggio sovrapposto.
A vivente esplodono importanze che non sapeva.
1991-92-98
Fonti: P. Oppezzo, Una lucida disperazione, Interlinea, 2016; P. Oppezzo, Esercizi d’addio, Interno Poesia, 2021; L. Martinengo, Il mondo in una stanza. Piera Oppezzo poeta, 2018; Esercizi d’addio di Piera Oppezzo, evento online di Interno Poesia
NOTA – POETA O POETESSA?
In generale, spiega Vera Gheno in “Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole”, i linguisti consigliano di non utilizzare il suffisso -essa, in quanto storicamente usato per designare “la moglie di”, oppure per conferire una connotazione dispregiativa. È anche vero che è rischioso intervenire sui termini che sono già pacificamente nell’uso, come poetessa, appunto. In ultimo, tra poeta o poetessa, Alba Sabatini consiglia di utilizzare poeta (accompagnato dall'articolo femminile), in quanto foneticamente legato al genere femminile sin dalla sua origine latina, e in quanto associabile per analogia ad altri nomi femminili o epiceni (es: atleta). Si veda Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, estratto da “Il sessismo nella lingua italiana” a cura di Alma Sabatini per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna, 1987. La questione non ha una risposta univoca, importante è utilizzare queste parole consapevolmente.
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