Duecento anni fa, il 20 agosto 1823, moriva Pio VII. L’ottantunenne Barnaba Chiaramonti, che da monaco aveva preso il nome di Gregorio, era stato papa per circa un quarto di secolo, vissuto quasi come il protagonista di un romanzo di Dumas. Il suo predecessore immediato – Pio VI, il cesenate Giannangelo Braschi, suo concittadino e protagonista di un pontificato ancora più lungo – era morto deportato in Francia, e per la chiesa di Roma il nuovo secolo si era aperto senza papa.

Ai due Pii originari di Cesena, nella Romagna che era parte dello stato papale, è toccata una transizione difficile. Nel loro cinquantennio, lungo e fitto di avvenimenti, la rivoluzione americana ma poi soprattutto quella francese – seguita dall’epopea napoleonica e dalla restaurazione tentata dal congresso di Vienna – hanno infatti sconvolto e trasformato non solo l’Europa. Per sempre.

In quell’estate di due secoli fa con Pio VII scompariva così non solo il papa prigioniero di Napoleone che aveva saputo tenergli testa, ma il cristiano dell’antico regime che aveva avvertito i tempi nuovi ed era riuscito ad affrontarli, ponendo le basi per le controverse trasformazioni del papato ottocentesco.

Al punto che, con le inevitabili inesattezze delle definizioni a effetto, si è visto in Chiaramonti il primo papa moderno e persino – da parte della storica dell’arte statunitense Roberta Olson, per l’immensa popolarità celebrata da immagini diffusissime – il primo eroe risorgimentale.

La vicenda di Pio VII e l’evoluzione successiva della chiesa di Roma sono ben rappresentate, nelle ultime settimane della sua vita, da un evento drammatico: l’incendio di San Paolo fuori le mura, la cui ricostruzione si prolungherà per oltre un secolo. Nella notte tra il 15 e il 16 luglio 1823 il fuoco – per l’incuria degli stagnari che riparavano il tetto, o per un attentato dei carbonari, secondo un’ipotesi subito circolata ma presto messa a tacere – brucia per ore, devastando l’unica delle quattro grandi basiliche romane rimasta quasi intatta dal V secolo.

«Parea un vesuvio terribile» racconta una cronaca: da «quindici, e più miglia si poté vedere cotanta disgrazia, che fece in ogni cuore orrore sacro, e penetrante». La rovina cattura Stendhal, il giorno dopo l’incendio: «Tutto ridiceva l’orrore e il disordine di quell’avvenimento funesto; la chiesa era ingombra di travi nere, fumanti e mezzo bruciate; grandi frammenti di colonne spaccate dall’alto in basso minacciavano di cadere alla minima scossa. I romani che riempivano la chiesa erano costernati. Fu questo uno degli spettacoli più belli ch’io abbia mai veduto: esso solo valeva un viaggio a Roma».

Da una decina di giorni Pio VII è allettato per una caduta che nella notte tra il 5 e il 6 luglio gli ha fratturato il femore. La notizia del disastro di San Paolo – adiacente al monastero dov’era stato giovane abate – gli viene nascosta. Ma secondo una testimonianza il papa morente ne ha oscuro sentore: «Il fuoco, il fuoco» mormora tra i dolori. E ormai in agonia, inframezzando brani di preghiere in latino, evoca nel delirio i nomi dei luoghi – Savona e Fontainebleau – dove Napoleone lo aveva recluso per quasi cinque anni, da quando il pontefice era stato strappato dal Quirinale un quindicennio prima, tra il 6 e il 7 luglio 1809, quasi le stesse date dell’incidente fatale.

Per mesi si dibatte sulla ricostruzione della basilica, che diviene il più grande cantiere artistico della Roma papale, ma il risultato non convince. «Voler rifabbricare San Paolo era come ricostruire il Colosseo» sintetizza Louis Delâtre, «era meglio lasciarlo quale l’incendio l’aveva ridotto». E Louis Veuillot: l’interno è grandioso, ma trasmette «aridità là dove dovrebbe dominare l’amore; esprime la contrarietà, l’ostinazione, la limitazione rigorosa, invece della bontà e dell’indulgenza», è «un vero controsenso». Il rifacimento, anche dell’antica serie dei ritratti dei pontefici, dura decenni: metafora delle contraddizioni del papato ottocentesco aperto da Pio VII e chiuso da Leone XIII, anche lui originario dello stato pontificio come tutti i papi del secolo, eccetto il bellunese Gregorio XVI.

Le origini

Chiaramonti nasce nel 1742 a Cesena da una famiglia della nobiltà cittadina. A quattordici anni Barnaba entra tra i benedettini e – dopo rigorosi studi a Padova e a Roma, nel clima antigesuitico che porterà nel 1773 alla soppressione dell’ordine – insegna a Parma, dove regna la corte italiana più lontana dalle posizioni papali e dove, come bibliotecario dell’abbazia di San Giovanni, sottoscrive un abbonamento all’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert. Eletto papa nel 1775 il concittadino Braschi, il giovane monaco viene chiamato a Roma, appunto nel monastero di San Paolo.

Vescovo di Tivoli dal 1782 e poi di Imola dal 1785, quando Pio VI lo crea anche cardinale, difende con energia i diritti episcopali dalle ingerenze dell’amministrazione pontificia. La cura della diocesi si complica con l’invasione militare francese e – tra alterne vicende belliche – dopo la sua inclusione nella repubblica Cispadana e poi Cisalpina. Così al vescovo è richiesto un intervento che appoggi il nuovo governo.

È questo nel 1797 il contesto dell’abile omelia per il Natale del «cittadino cardinal Chiaramonti vescovo d’Imola diretta al popolo della sua diocesi» che culmina nell’esortazione: «Sì, miei cari fratelli, siate buoni cristiani e sarete ottimi democratici». Un testo in definitiva tradizionale di cui non vanno sopravvalutate «né l’importanza né l’originalità» – secondo Philippe Boutry, conoscitore come pochi del cattolicesimo ottocentesco – ma che comunque tenta di elaborare «una teologia politica in epoca rivoluzionaria».

Per lo stato pontificio gli avvenimenti precipitano, in un contesto europeo dove si sta affermando prepotente la figura del primo console: il 15 febbraio 1798 il potere temporale del papa viene soppresso ed è proclamata la Repubblica romana. Cinque giorni dopo Pio VI è portato a Siena, poi nella certosa di Firenze, finché l’anno successivo, trasferito oltre le Alpi, muore a Valence il 29 agosto 1799. Alla fine del conclave – che per oltre tre mesi si svolge a Venezia soggetta all’impero austriaco – Chiaramonti è identificato come candidato di compromesso ed eletto all’unanimità, il 14 marzo 1800.

Il migliore segretario

Subito Pio VII sceglie come suo più stretto collaboratore il quarantatreenne Ercole Consalvi, «pro-segretario» di stato perché lo stato non c’è. Sarà il migliore nella storia della sede romana. Creato cardinale pochi mesi dopo tra opposizioni interne, Consalvi viene contrastato da Napoleone al punto che tra il 1806 e il 1814 il pontefice deve sostituirlo nominando successivamente quattro prelati. Dal 1814 Consalvi torna al suo posto e ricostituisce da vero «riformista conservatore» – la definizione è di Roger Aubert – lo stato pontificio, ripristinato e poi di nuovo soppresso dal 1809, quando papa Chiaramonti è costretto a lasciare Roma. In una carrozza che esce da Porta Pia, quasi ad annunciare il crollo del potere temporale nel 1870.

Nel quindicennio turbinoso attraversato da papa Chiaramonti fino alla sconfitta definitiva di Napoleone si gioca – tra colpi di scena – la lunga partita tra imperatore e papa. Non a caso ora ricostruita dagli storici francesi Jean-Marc Ticchi (Pie VII, Perrin) e, grazie ai rapporti dei carcerieri del pontefice, Serge Ceruti (Le pape prisonnier de l’empereur, Salvator).

Il concordato del 1801 annienta l’episcopato dell’antico regime e le prerogative della chiesa gallicana, dando al pontefice un potere senza precedenti, mentre il prestigio del papato è accresciuto dal recupero delle spoglie di Pio VI considerato martire. Napoleone replica nel 1802 con un lungo testo interpretativo, poi tra difficili trattative ottiene che nel 1804 il papa in persona lo consacri imperatore a Parigi nella celebrazione mirabilmente dipinta da Jacques-Louis David.

Ma dal 1805 il rifiuto del pontefice ad aderire al blocco continentale contro l’Inghilterra inasprisce Napoleone. Matura il progetto di un nuovo impero e di un trasferimento del papato nella sua capitale, ovviamente Parigi. Roma viene di nuovo occupata. E saranno infine la dura prigionia subita tra il 1809 e il 1814 da Pio VII – privato persino del necessario per scrivere e che a un sorvegliante appare «più monaco che principe» – e il suo rientro trionfale a Roma a ottenere per il papato un prestigio e un potere nuovi. Grazie a un pontefice che proprio David, impressionato come molti contemporanei, aveva definito «un vero prete».

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