In un podcast di Fandango, Tragediatori, la storia di due mafiosi che hanno collaborato con la giustizia qualche anno prima del maxi processo. Uno è Leonardo Vitale e l’altro Giuseppe Di Cristina. Ammazzati tutti e due per avere fatto il nome di Totò Riina quando era ancora uno sconosciuto
Uno era sicuramente pazzo e l'altro probabilmente pure. Così dicevano: pazzi. Perché parlavano di qualcosa che non esisteva. Non si erano mai visti ma avevano gli stessi fantasmi e le stesse paure.
Il primo era un ragazzo un po' strambo che veniva da una borgata, Altarello di Baida, che segna il confine fra la Palermo dei palazzi nuovi e le prime colline di Monreale.
Il secondo era un mafioso importante di Riesi, paese della Sicilia più profonda in mezzo a miniere di zolfo e campi assolati.
Leonardo Vitale e Giuseppe Di Cristina sono stati i primi a fare un nome, quello di Salvatore Riina detto "Il Corto”, il futuro capo dei capi di Cosa Nostra. Leonardo Vitale e Giuseppe Di Cristina hanno avuto la stessa sorte: morti ammazzati, per averlo fatto quel nome.
Una parola sussurrata
Le loro storie spiegano la mafia prima della scoperta della mafia, la mafia prima della comparsa sulla scena del giudice Giovanni Falcone e prima di quel capolavoro di ingegneria giudiziaria che è stato il suo maxi processo.
Ma la mafia c'era già. O meglio, c'era e non c'era. E chi solo sussurrava quella parola era considerato per l'appunto un pazzo.
La vita e la morte di Leonardo Vitale e di Giuseppe Di Cristina vengono raccontate nell'audio serie Tragediatori prodotta da Fandango Podcast, che verrà presentato al Festival dell'Ascolto “Ci vuole orecchio” sabato 30 novembre a Roma nella biblioteca Goffredo Mameli del Pigneto. Firmato da Giulia Lecce e da me, Tragediatori ci catapulta in una Sicilia quando i pentiti non si chiamavano ancora pentiti e dove era inimmaginabile che, appena qualche anno dopo, boss come Tommaso Buscetta o Salvatore Contorno potessero rompere il muro dell'omertà mafiosa e collaborare con lo Stato.
Sono due storie diverse ma la trama è una sola: il tradimento, la confessione, il disvelamento di un mondo che era rimasto segreto per quasi due secoli.
Leonardo Leuccio Vitale detto “il Valachi di borgata” perché come Joe Valachi in America se l'era "cantata”, ha accusato i membri della setta più potente, la Cosa Nostra Siciliana. Era un uomo provato dalla vita, ossessionato da un cavallino bianco che suo zio, Giovanbattista Vitale, gli aveva ordinato di abbattere per poi farli sapere: «Adesso puoi abbattere anche un cristiano». Voleva far diventare Leucccio come a lui, un mafioso.
I boss “buoni”
Giuseppe Di Cristina aveva osato anche di più, per mesi e mesi si era confidato con un capitano dei carabinieri per spiegare che la sua mafia era "buona” al contrario di quell'altra dei Corleonesi di Totò Riina, un serpente che voleva far fuori tutti - mafiosi e rappresentanti dello Stato - per conquistare la Sicilia.
Giuseppe Di Cristina non era uno qualunque, impiegato di un ente regionale siciliano, amico di senatori e ministri, era famoso come "il boss dal colletto bianco”.
Nell'audio serie Tragediatori si ricostruiscono le loro vite e le loro morti. Da quando Leuccio in una sera del marzo 1973 entra nelle stanze della squadra mobile di Palermo perché «ha qualcosa di importante da dire» a quando lo uccidono, una domenica mattina del dicembre del 1984 fuori da una chiesa e subito dopo la messa. In mezzo una vita grama, i magistrati che non gli credono, che lo giudicano "pazzo” e lo fanno rinchiudere in un manicomio criminale.
E da quando il boss di Riesi spadroneggia nelle province interne della Sicilia al giorno dell'ultimo agguato, con i sicari mandati dai Corleonesi che nel maggio 1978 gli sparano.
In mezzo il suo ruolo nella morte del potentissimo presidente dell'Eni Enrico Mattei, le interminabili mangiate e le parlate alla tenuta della Favarella di Michele Greco, i misteri di Cosa Nostra sussurrati in un casolare e l'annuncio che «Totò Riina vuole uccidere il giudice Cesare Terranova».
Le confessioni del capomafia di Riesi sono trasmesse ai magistrati della procura di Palermo e chiuse in un cassetto. Rimaste lì dentro fino a quando, il 25 settembre del 1979, Cesare Terranova viene ucciso. Proprio come aveva anticipato quel pazzo di Giuseppe Di Cristina.
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