Che cosa leggi? Lo chiedo spesso, a lezione. In azienda rispondono con saggistica, notizie, riviste. Chi frequenta corsi di scrittura rilancia con romanzi, racconti e qualche saggio. Prevedibile, si potrebbe pensare. Rientrare nei ranghi, è il dazio richiesto per prendere posto nel mondo adulto.

Prima dell’età della ragione le risposte cambiano. I diciottenni e ventenni che incontro in classe frequentano anche la poesia. A volte la scrivono. Lo vedo, il labbro di chi legge che s’increspa: vent’anni, gli amori che sconvolgono, i primi corpo a corpo con la vita. È una condizione straordinaria e rischiosa, la giovinezza, ci si aggrappa a qualunque appiglio sia a portata di mano. Persino alla poesia.

Si cresce, la vita prende una piega, la piega si biforca in un binario dritto, lungo, senza sorprese. La poesia non serve più. Salvo nelle frenate brusche, negli scambi che deviano la traiettoria: un amore inaspettato, la morte di un amico, un figlio che nasce, una malattia. In momenti così c’è bisogno di parole che, quando servono, non si trovano mai. In momenti così, si cercano persino nei libri di poesia.

Ma i versi che ci sono rimasti impigliati addosso hanno più a che fare con irti colli, cavalline storne e 5 maggio di secoli fa, e cosa ne sa una rima baciata della vita di oggi, nel mondo di oggi.

Patrimonio comune

(AP Photo / Jonas Ekstromer, file)

Ogni regola ha la propria eccezione. L’eccezione, nella mia esperienza, si chiama Wisława Szymborska. I versi della poetessa polacca, Nobel per la letteratura nel 1996, sono diventati patrimonio comune. Vengono citati, regalati, condivisi, dedicati. Li ho sentiti nominare dai ragazzi, li ho visti sulla copertina di un libro (il titolo di Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre di Benedetta Tobagi è un verso tratto da Ogni caso) e persino su LinkedIn, il più serio dei social, che prende altrettanto seriamente la poesia Scrivere il curriculum: Scrivi come se non parlassi mai con te stesso / e ti evitassi.

La poesia, anche se non ho più vent’anni da circa vent’anni, continuo a frequentarla. Sarà perché, per lavoro, cerco le parole, ma non è solo questo. La leggo per piacere, la studio, è parte delle mie lezioni. Preferisco i versi che richiedono un po’ di fatica, mi danno più soddisfazione, come la scarpinata in montagna che poi regala un panorama mozzafiato. Emily Dickinson, che non era una da scarpinate in montagna, scriveva che la poesia è Una casa più bella della prosa (…) Ha stanze che somigliano ai cedri / Un solo sguardo non le può cogliere. Il suo componimento numero 657 svela che, per apprezzare i suoi versi, non basta un’occhiata di sguincio. Ci vuole dedizione - se non altro perché a una prima lettura si coglie poco.

Lo stesso non si può dire dei versi di Szymborska. Tutt’altro che criptici, rifuggono ogni retorica, ogni sgambetto. Una semplicità che, a torto, ho scambiato a lungo per facilità. Ma le risposte facili non sono quasi mai quelle giuste. Allora mi sono messa a leggere. Questa è Parabola.

Dei pescatori tirarono fuori dagli abissi una bottiglia. Dentro c’era un pezzo di carta, con scritte queste parole: «Aiutatemi! Sono qui. L’oceano mi ha gettato su un’isola deserta. Sto sulla sponda e aspetto aiuto. Fate presto. Sono qui!».

«Non c’è data. Sicuramente ormai è troppo tardi. La bottiglia può aver galleggiato in mare per molto tempo» disse il primo pescatore.

«E non c’è indicazione del luogo. Non si sa neanche quale oceano sia» disse il secondo pescatore.

«Non è né troppo tardi né troppo lontano. L’isola Qui è ovunque» disse il terzo pescatore.

Seguì una sensazione di disagio, calò il silenzio. È quel che accade con le verità universali.

I versi di Szymborska creano storie, ecco perché sono accessibili. Come accade con le narrazioni ben congegnate, non serve una morale e c’è spazio per diversi livelli di lettura. Il generico qui del messaggio in bottiglia diventa l’isola Qui, un luogo definito e infinito –  è ovunque – che richiama alla responsabilità individuale.

Poesia zen

Poesie che aprono domande e spazi di riflessione, che lasciano chi legge in una sospensione che in un primo momento disorienta poi, al contrario, radica. Conosciamo noi stessi solo fin dove / siamo stati messi alla prova. / Ve lo dico / dal mio cuore sconosciuto. (Da Un minuto di silenzio).

Poesia, questa, che viene definita filosofica, riflessiva, zen. Per un po’ ho praticato zazen, la meditazione zen (spiegazione breve). Ci si siede di fronte a un muro, a occhi aperti, e si sta fermi. Non c’è una voce che guidi, un’immagine da suscitare, un obiettivo da raggiungere. Ci andavo la domenica mattina presto. Molto presto. Rientravo il sabato notte dalle trasferte di lavoro, uscivo di casa all’alba, partivo già in ritardo e sgommavo per le viuzze di provincia che dalla collina si srotolavano verso il dojo. Guidavo come fossi dentro Gta, schivando le nonnine col deambulatore che sciamavano verso la prima messa del mattino, arrivavo trafelata e ancora con la piega del guanciale tatuata sulla guancia destra e per i primi 20 minuti di meditazione rantolavo per lo sforzo perché trovavo parcheggio a tre isolati dal dojo, quando andava bene. Dojo che raggiungevo al galoppo, come braccata da una mandria invisibile di cinghiali. Ho smesso di andarci a zazen. Credo che l’esperienza mi abbia condotta alla mia personale illuminazione: forse, scapicollarsi a rotta di collo per poi stare immobili un’ora è un controsenso. Forse, in certi casi, è più zen stare a casa a dormire.

Nei 20 minuti in cui il respiro e il battito cardiaco tornavano a un’andatura allegra ma non troppo stare nel silenzio, nell’immobilità e nel vuoto aiutava. Non è semplice spiegare cosa accade, o meglio cosa non accade, in una circostanza simile. È un po’ come cercare di capire le teorie quantistiche per cui il vuoto contiene energia infinita. Ma come energia infinita, se è vuoto? È un po’ come leggere le storie zen, o i koan: racconti, domande che non mirano a ottenere una risposta ma a provocare un salto nel vuoto, uno scarto che porta a un altro grado di comprensione della realtà.

Rivelazioni

AP1996

La realtà quotidiana, lo sappiamo, non è fatta di grandi rivelazioni. L’eccezione, ed è qui che si colloca la poesia di Szymborska, sta nel cogliere l’eccezionalità del quotidiano e nell’illuminarla. Anche, soprattutto, in quelle giornate che di luminoso hanno ben poco. Come in RitorniÈ ritornato. Non ha detto nulla. / Era chiaro però che aveva avuto un dispiacere. / Si è coricato vestito. / Ha messo la testa sotto le coperte. / Ha ripiegato le gambe. / È sulla quarantina, ma non ora. / Esiste – ma solo quanto nel ventre di sua madre, / al di là di sette pelli, al riparo del buio. / Domani terrà una conferenza sull’omeostasi / nella cosmonautica metagalattica. / Per il momento si è raggomitolato, dorme.

Una giornata grigia si cerca di dimenticarla in fretta, non certo di farla diventare poesia. Eppure. Forse il rovesciamento che propone lo zen, e con lui i versi di Szymborska, sta nel risvegliare uno sguardo poetico. Se la poesia è nello sguardo, tutto diventa poesia. Ieri mi sono comportata male nel cosmo. / Ho passato tutto il giorno senza fare domande, / senza stupirmi di niente. / Ho svolto attività quotidiane, / come se ciò fosse tutto il dovuto. Questa poesia si intitola Disattenzione. È forse di questo che si tratta? Il dazio da pagare per prendere posto nel mondo adulto è forse la disattenzione? Poco alla volta ci si dimentica di riconoscere le prime volte di ogni giorno, i giorni poco alla volta diventano tutti uguali e lo stupore dei vent’anni, delle avventure e dei libri di poesia sbiadiscono in ricordi.

Una via d’uscita, una scappatoia dai ranghi, c’è. Si ripresenta ogni giorno. È durato 24 ore buone. / 1440 minuti di occasioni. / 86.400 secondi in visione. / Il savoir-vivre cosmico, / benché taccia sul nostro conto, / tuttavia esige qualcosa da noi: / un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal / e una partecipazione stupita a questo gioco / con regole ignote.

Le poesie di Wisława Szymorska sono pubblicate da Adelphi nella raccolta La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945 - 2009) a cura di Pietro Marchesani.

La poetessa è stata tradotta in moltissime lingue. La traduzione russa fu a cura di Anna Achmatova, altra poetessa da conoscere. Lo si può fare con il bellissimo libro e audiolibro di Paolo Nori, Vi avverto che vivo per l’ultima volta, rispettivamente Mondadori e Audible.

Infine, per chi volesse saperne qualcosa in più sullo zen: 101 storie zen e La porta senza porta di Mumon, Entrambi i volumi sono a cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps e sono editi da Adelphi.

© Riproduzione riservata