Non è il romano antico più celebre ma senza dubbio è il più nominato. «Sotto Ponzio Pilato» ripetono infatti i cristiani ricordando la crocifissione e morte di Gesù nel Credo della messa, la cui formulazione viene stabilita nel 381 dal primo concilio di Costantinopoli. Ma già da due secoli le stesse parole risuonavano in diverse professioni di fede. E, prima ancora, il nome del rappresentante romano che condannò Cristo ricorre una cinquantina di volte nei libri del Nuovo Testamento, scritti nella seconda metà del I secolo.

Fin dall’incontro di Pilato con l’imputato Gesù di Nazaret, narrato dai quattro vangeli canonici con diverse prospettive, la sua figura è legata a quella di Cristo, entra negli apocrifi e nelle leggende medievali fino ad arrivare alla letteratura e al cinema. Scolpito su sarcofagi paleocristiani e miniato nel codice di Rossano (un manoscritto bizantino dei vangeli copiato tra il V e il VI secolo in lettere d’argento e d’oro su una pergamena tinta di porpora), Pilato riemerge nel 1961, quando nel porto di Cesarea Marittima viene scoperta un’iscrizione con il suo nome e il titolo, «prefetto della Giudea».

Il ritrovamento è la conferma archeologica dell’incarico del quinto rappresentante di Roma in questa provincia romana. Di origine italica, forse sannita, Pilato governa la Giudea dal 26 al 36. Tutte le notizie più antiche sul prefetto si riferiscono al periodo di governo del piccolo ma turbolento territorio soggetto all’imperatore, in quegli anni Tiberio. A scrivere di Pilato sono i due maggiori autori del giudaismo ellenistico – Filone di Alessandria, filosofo e commentatore della Bibbia, e lo storico Flavio Giuseppe – e un po’ più tardi Tacito. E, naturalmente, i vangeli.

Vicenda enigmatica

Se pochissimo si ipotizza sull’origine e sulla vita precedente di Pilato, nulla invece si conosce del suo destino finale. «Intorno al 40 doveva essere già morto» conclude Aldo Schiavone nel suo Ponzio Pilato (Einaudi), dove con intelligente suggestione approfondisce la vicenda enigmatica – «tra storia e memoria» – dell’alto funzionario romano in modo del tutto convincente.

Gli autori ebraici non sono benevoli nei confronti del prefetto della Giudea, ostile al popolo ebraico e dunque «spregevole» nell’immagine che di lui nel 41 dipinge Filone, che però ricorre a stereotipi. Più articolato, ma sempre negativo, è il ritratto di Pilato che si ricava dalle opere di Flavio Giuseppe. Nel 93 o 94 lo storico ebraico accenna poi nelle sue Antichità giudaiche (18, 63) alla vicenda di Gesù in un breve testo – poi definito testimonium Flavianum – che diviene celeberrimo.

Modificato certamente da copisti cristiani con piccole ma inequivocabili aggiunte, il brano è comunque secondo la maggioranza degli studiosi attendibile nel suo nucleo originario. «Non vi sono motivi – se non frutto di pregiudizi che risalgono sino alla critica cinquecentesca – per non ritenere autentico il resto della scrittura, presente in tutti i manoscritti, perfettamente corrispondente allo stile e al lessico dell’autore» sintetizza Schiavone, che del brano propone una ricostruzione plausibile.

Nei Vangeli

Flavio Giuseppe descrive Gesù come «un uomo saggio», ma anche protagonista «di opere sorprendenti, maestro di uomini che accoglievano con gioia la verità» sia tra i giudei che tra i greci, e aggiunge che «era chiamato il Cristo», cioè il messia. A questo punto lo storico ebreo accenna alla sua condanna da parte del prefetto romano, con una sintesi essenziale ma precisa dei primi decenni del cristianesimo: «Quando Pilato, avendo sentito che egli era accusato dai nostri uomini più importanti, lo condannò a essere crocifisso, coloro che fin dall’inizio lo avevano amato non smisero di essergli legati. E la tribù dei cristiani, chiamati così dopo di lui, non è scomparsa fino a oggi».

Molto più spazio è naturalmente riservato al ruolo di Pilato nel processo e nella condanna di Gesù dai quattro evangelisti, con accentuazioni tra loro diverse che sono state a lungo analizzate da Helen Bond (Ponzio Pilato, Paideia). Marco lo descrive come «un politico astuto» che manipola la folla. Invece per Matteo – preoccupato soprattutto di «far vedere che la folla giudaica respinge il suo messia e se ne prende la responsabilità» – il prefetto è indifferente davanti alla sorte di Gesù.

«Non avere a che fare con quel giusto, perché oggi in sogno sono stata molto turbata a causa sua» gli manda però a dire la moglie proprio mentre lo sta giudicando. Unico a evocare in questo modo la figura che la tradizione apocrifa identifica con Claudia Procula, l’evangelista Matteo descrive poi il gesto di Pilato che si lava le mani, storicamente insostenibile ma divenuto proverbiale nel bollarne la decisione.

Il terzo evangelista, Luca, presenta in una luce diversa e un po’ più positiva il prefetto romano, che pur riconoscendo Gesù innocente, cede alle pressioni per condannarlo. Giovanni, autore del vangelo più rielaborato ma storicamente più fondato, è infine l’evangelista che presenta il profilo più esatto di Pilato, uomo del potere, e narra il dialogo sconvolgente ed enigmatico tra il prigioniero e il suo inquisitore. «Eppure, l’uomo che sembra al comando, dall’attimo in cui ha incontrato il suo inquisito, è caduto nell’abisso di un’inferiorità senza scampo, che lo annienta (ai nostri occhi) rispetto alla potenza invisibile di chi gli sta davanti inerme e solo» scrive Schiavone in modo perfetto.

«Un cristiano nel cuore»

Un secolo e mezzo dopo quel drammatico confronto svoltosi in una Gerusalemme alla vigilia della Pasqua ebraica – con ogni probabilità era la mattina del 7 aprile dell’anno 30 – Tertulliano definirà Pilato «un cristiano nel cuore» (pro sua conscientia Christianus). Gli sviluppi sulla successiva adesione del prefetto alla religione di Cristo erano infatti sicuramente noti all’autore dell’Apologeticum, che nel 197 inaugura la letteratura latina cristiana.

Molto però oggi sfugge. «Io credo che egli sapesse cose che noi non conosciamo. Che gli fosse nota una tradizione in cui il comportamento di Pilato veniva spiegato per quello che era stato: un arrendersi alla potenza della profezia di Gesù su sé stesso – all’inevitabilità della morte del prigioniero» sottolinea Schiavone a proposito di Tertulliano.

Tra dannazione ed esaltazione

L’ombra che dopo l’esecuzione di Gesù scende sul destino di Pilato è rischiarata solo dai bagliori del mito. Un libro a cura di Giacomo Jori edito da Olschki fa il punto sugli innumerevoli apocrifi e leggende. Sono tradizioni affascinanti che dall’età tardoantica e il medioevo hanno alimentato opere letterarie e realizzazioni cinematografiche, con esiti che oscillano tra il suicidio di Pilato e il suo martirio: dunque tra la dannazione e l’esaltazione come santo, venerato dai cristiani copti ed etiopici.

Due film spiccano, entrambi italiani. L’inchiesta di Damiano Damiani, del 1986, dove un’indagine sulla morte di Cristo è affidata da Tiberio a un suo inviato, ostacolato da Pilato. Ma soprattutto, un anno più tardi, Secondo Ponzio Pilato di Luigi Magni, basato su un’approfondita e accattivante conoscenza degli apocrifi accompagnata da una riuscita colonna sonora di Angelo Branduardi. Il prefetto della Giudea è Nino Manfredi, che nel film parla un perfetto romanesco, mentre Stefania Sandrelli interpreta la moglie Procula e Lando Buzzanca un centurione, entrambi divenuti seguaci di Cristo.

Se nel racconto di Anatole France il prefetto non ricorda più, a tanti anni di distanza, «Gesù, il nazareno», con Michail Bulgakov la condanna di Cristo entra a sorpresa nella Mosca sovietica. Ambientato negli anni venti, nel romanzo fantastico Il Maestro e Margherita il confronto tra i due è narrato dal diavolo in persona a due letterati atei e convinti che Gesù non sia mai esistito. Indimenticabile è la descrizione iniziale di Pilato: «Al mattino presto del giorno 14 del mese primaverile di Nisan, avvolto in un mantello bianco foderato di rosso, con una strascicata andatura di cavaliere…».

Nel 2000 Il vangelo secondo Pilato di Eric-Emmanuel Schmitt, ora in una nuova edizione italiana (e/o, insieme alla Lev), si presenta come una serie di lettere del prefetto della Giudea al fratello Tito introdotte da un lungo monologo di Gesù. In un libro, magnificamente scritto, che documenta il cammino dello scrittore francese dalla sua iniziale identificazione con Pilato a quella con Procula – «la quale, sappilo, si dichiara cristiana» scrive lo stesso Pilato a Tito – nel riconoscere «una realtà che percepisco, che consulto, che ringrazio e che mi indica la direzione».

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