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Nel 1964, quando avevo 12 o 13 anni circa, trascorsi l’estate in una casa sul mare a 35 miglia da Istanbul. Un giorno vidi una piccola raccolta d’acqua tra le rocce.
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Presto ho scoperto che sotto la superficie imperturbabile e perfettamente trasparente della “mia” pozza, c’era un altro mondo, un’intera civiltà, e ho preso a passarci sempre più tempo, solo nella calura estiva, attratto dal vivace regno sommerso dalle tiepide acque del mare.
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Tutto quel mondo oggi è perduto. Nel 1964 due milioni e mezzo di persone vivevano vicino al Mar di Marmara. Oggi se ne contano venticinque milioni e metà dell’attività industriale della Turchia ha sede lì.
Nel 1964, quando avevo 12 o 13 anni circa, trascorsi l’estate in una casa sul mare a 35 miglia da Istanbul. Saltavo il muretto del giardino e camminavo verso la spiaggia attraverso le rocce e i campi aperti che costeggiavano la riva, osservando tutte le piccole meravigliose sorprese che la natura riservava sui miei passi.
Un giorno vidi una piccola raccolta d’acqua tra le rocce. Non era proprio una pozza di marea. Il mare continuava a riversarsi attraverso le fessure tra le rocce e le pietre. Eppure, come una vera pozza, era profonda circa una trentina di centimetri e larga sei o sette metri ed era protetta dall’assalto delle indisciplinate onde del mare.
Un altro mondo
Presto ho scoperto che sotto la superficie imperturbabile e perfettamente trasparente della “mia” pozza, c’era un altro mondo, un’intera civiltà, e ho preso a passarci sempre più tempo, solo nella calura estiva, attratto dal vivace regno sommerso dalle tiepide acque del mare.
I miei preferiti erano i granchietti per metà bianchi e per metà traslucidi, non più grandi di un’unghia, che si agitavano in un moto laterale perenne. Ghiozzi chiazzati e multicolori sfrecciavano da una roccia all’altra, evitando accuratamente il sole. Quelli erano piuttosto brutti. I ghiozzi più grandi spesso rimanevano impigliati nelle reti dei pescatori, così come gli scorfani, che avevano delle punte velenose sulla schiena. Non mi piacevano.
Un’aguglia che aveva perso l’orientamento ed era finita per caso nella pozza ogni tanto emergeva in superficie e pazientemente cercava una via di fuga, il suo sottile becco nero fendeva l’acqua come un sottomarino. Non mi convinceva l’incapacità dell’aguglia di trovare la sua via d’uscita e, seguendo i suoi progressi, ripensavo anche ai dilemmi della mia vita.
D’un tratto un granchio marrone della dimensione di una mia mano (la mia mano di dodicenne!) avrebbe sollevato la sua chela marroncina e lucente di porcellana tra i ricci, i pomodori di mare e le cozze abbarbicate alle rocce butterate. Al primo segnale di movimento io e tutte le altre creature di quella pozza d’acqua salata ci immobilizzavamo e aspettavamo che il granchio marrone uscisse dall’acqua, ma non è mai successo. Come le bavose, che si muovevano sempre alla velocità dei lampi, torcendo non solo la coda ma l’intero corpo mentre avanzavano, anche il granchio marrone era uno spettacolo raro.
A volte un branco di latterini delle dimensioni di fiammiferi, smarrendosi come l’aguglia o spinto da un’onda disubbidiente, entrava nella pozza e vi restava. Mi ha sempre sorpreso l’apparente imperturbabilità dei latterini mentre cercavano una via d’uscita.
Indossavo pantaloncini corti e le infradito di plastica che in Turchia sono note come “Tokyos” perché ricordano le ciabattine tradizionali giapponesi. A volte entravo in acqua fino alle ginocchia, sotto i miei piedi il terriccio era viscido e paludoso, e mi mettevo proprio al centro di quella civiltà.
Piccoli gamberetti bianchi saltavano come cavallette e si disperdevano. Aspettavo che la nube a fungo della fanghiglia sollevata dai miei piedi tornasse lentamente a posarsi e poi mi chinavo nuovamente portando il naso dinnanzi allo specchio d’acqua.
Restavo così per ore a volte, osservando le lumache di mare sul fondo dell’acqua, le lumachine che indaffarate trascinavano i loro gusci insieme alle loro zampe veloci e pelose come quelle di ragni, le impronte di tutte queste creature diverse, gli strani buchi sul fondo che sembravano formicai e le minuscole bolle d’aria la cui presenza non riuscivo mai a spiegare del tutto. Il sole mi bruciava la nuca. In lontananza sentivo i bambini che gridavano e gli schiamazzi di gente felice che si godeva la spiaggia.
Nel corso di quelle due estati una sola volta è successa una cosa terribile in quelle acque altrimenti tranquille. Un gabbiano si gettò dal cielo e abilmente afferrò un ghiozzo grassoccio e sventurato nel becco prima di librarsi nuovamente verso il cielo. Non ho mai dimenticato la paura che ho provato in quel momento.
Ogni tanto mia madre mi chiamava da casa. «Orhaaaan! Ooooorrrhaaaaan!». Non ho mai risposto, per paura di rivelare dove mi trovavo. Volevo appartenere al mondo di quelle acque, e così mi limitavo ad aspettare lì, in silenzio e senza muovermi.
Scia bianca
Tutto quel mondo oggi è perduto. Nel 1964 due milioni e mezzo di persone vivevano vicino al Mar di Marmara. Oggi se ne contano venticinque milioni e metà dell’attività industriale della Turchia ha sede lì.
Nel 1976 la mia pozza di marea è stata ricoperta e al suo posto è stato costruito un molo di cemento, progettato per offrire alle persone che trascorrevano l’estate nel condominio vicino un luogo dove poter prendere il sole. Fino al giugno del 2021, quando una misteriosa e rivoltante scia bianca, che la gente del luogo disgustata chiamava “moccio di mare”, è apparsa sulla superficie del Mar di Marmara, le spiagge pubbliche di Istanbul e la regione di Marmara – ognuna delle quali un tempo aveva costituito un mondo distintivo proprio, come un tempo avevano fatto i cinema – erano tutte chiuse, proprio come le lumache di mare e i minuscoli gamberetti scomparsi molto prima di loro.
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