Cadono oggi i 100 anni del primo campione olimpico nero: William DeHart Hubbard vinse il salto in lungo a Colombes, Parigi. Il giorno prima Harold Abrahams era diventato campione dei 100 e Robert LeGendre, uno studente di Princeton dalle profonde radici francesi e in possesso di un inglese rudimentale, era salito sul podio del pentathlon, terzo, atterrando soprattutto a 7,76 era diventato il nuovo primatista mondiale del salto in lungo.

Con una battuta che scatenerebbe sdegno, Lawson Robertson, capo allenatore degli Usa, disse che alla notizia Hubbard, abbandonato il puzzle che stava componendo per distrarsi, «era diventato bianco».

Il record del mondo era la sua ossessione sin da quando, affidato a Pittsburgh al tecnico Steve Farrell (un singolare passato tra circo e attività professionistica nello sprint) era andato a ridosso dei 7,60. Il vertice, a quel tempo, era occupato da Ed Gourdin: nel 1921, a Cambridge, Massachusetts, aveva migliorato dopo vent’anni un record memorabile, il 7,61 di Peter O’Connor, irlandese costretto dallo status della sua isola a gareggiare per la Gran Bretagna.

Hubbard si era messo in testa di diventare il primatista del mondo e di essere il primo afro-americano a vincere una gara individuale. Lo aveva scritto alla madre poco prima che la SS America salpasse da Hoboken, New Jersey, con destinazione Cherbourg: «Sto per partire e il mio obiettivo su sta avvicinando: fare il meglio per diventare FIRST COLORED OLYMPIC CHAMPION». Le ultime quattro parole sono sottolineate, colored è sottolineata due volte.

Il viaggio in nave

Dopo nove giorni di viaggio, la nave attracca a Cherbourg. La destinazione è il castello di Rocquencourt, nei pressi di Versailles, dimora del quinto duca Murat, discendente del Gioacchino maresciallo di Francia, brevemente re di Napoli e fucilato a Tolentino. Gli atleti non sono alloggiati nel castello, ma in baracche costruite nel parco. Il posto è sgradito.

Il viaggio per andare a Colombes è lungo, disagevole e la pista e le pedane che trovano li lasciano stupiti e preoccupati: troppa carbonella le ha rese soffici. Ma Hubbard, che ha una grande leggerezza in volo, diventa un’attrazione e il titolo di primo tifoso è strappato da Douglas Fairbanks, sugli schermi pirata e spadaccino.

Il giorno della gara decide di cambiare scarpe: ne indossa un paio più leggere, con della gomma spugnosa sul tallone, qualcosa che ricorda la “schiuma” odierna. Nullo al primo salto, una brutta esecuzione al secondo: si qualifica per la finale ma il tallone è dolorante.

Robertson racconterà: «Non ho avuto il coraggio di dirgli di smettere». Ed è dopo essersi appoggiato a un paio di stampelle che torna in pedana e piazza il salto buono, 7,44, diciassette centimetri davanti ad Ed Gourdin, il primatista appena detronizzato. «Avevo pensato – ricorderà – che la sfortuna che quattro ani prima si era accanita contro Sol Butler volesse colpire anche me». Ad Anversa Butler era il favorito ma un grave infortunio al primo salto lo tagliò fuori dalla lotta.

Centrato l’obiettivo di diventare il primo campione nero, DeHart inseguì il secondo e lo centrò quattro anni dopo a Chicago atterrando a 7,89. L’Associated Press scrisse nel suo resoconto che quel record sarebbe durato a lungo. Sbagliava: appena 24 giorni dopo, ai Trials di Cambridge, Ed Hamm, futuro campione olimpico, aggiunse un centimetro. Hubbard finì terzo con 7,30 e la condizione fisica mediocre gli fece saltare l’appuntamento di Amsterdam.

Si dedicò al baseball e fondò il Cincinnati Tigers Negro baseball e più tardi lavorò, al fianco di Jesse Owens, nella Federal Housing Administration. «Era un atleta eccezionale: avesse giocato a basket sarebbe stato il numero uno»: il giudizio è di Abe Saperstein, inventore degli Harlem Globetrotters.

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