Nel 1964 l’autore di fantascienza Lem ha indossato i panni del “futurologo” e scritto Summa technologiae. Non tutte le sue previsioni sono azzeccate, ma è stato in grado di capire il potenziale dell’informatica
Davanti ai vecchi film e libri di fantascienza sono possibili due atteggiamenti opposti. O esaltarsi per quanto avevano previsto e precorso, o ridere della assurdità delle immaginazioni e della goffaggine degli strumenti. C’è l’appassionato che vede i prototipi dell’iPad negli schermi piatti su cui si informano gli astronauti di 2001 Odissea nello spazio, e lo scettico sempre pronto a puntualizzare: sì, ma non avevano il touch screen, e nessuno ha immaginato il personal computer, al massimo Hal grande come una stanza.
C’è addirittura chi è pronto a vedere nel Frankenstein di Mary Shelley il precursore dei trapianti d’organo e chi fa il difficile sul telefono cellulare in mano in Star Trek (sembra una grattugia e ha le lucine come un giocattolo per bambini).
Con i libri dei futurologi è ancora peggio, perché qui non c’è nemmeno la possibilità di abbandonarsi al racconto e di goderselo come una storia che non invecchia, indipendentemente da quanto siano invecchiati o moderni i device che ci fa vedere. Se però il futurologo si chiama Stanislaw Lem, e il libro Summa technologiae. Scritti sul futuro, non sarà necessario oscillare tra i due atteggiamenti, o, per meglio dire, ci sarà da divertirsi e da imparare sia nelle parti in cui il libro ci appare inevitabilmente datato sia in quelle in cui ci appare straordinariamente profetico. Lem, infatti, è un futurologo molto sui generis, così come è stato uno scrittore di fantascienza inimitabile. Perché il Lem in questione è proprio lui, lo scrittore polacco diventato famoso in tutto il mondo con Solaris, trasposto sugli schermi una prima volta nientemeno che da Andrej Tarkovskij (e poi da Steven Soderbergh).
I suoi libri di fantascienza sono tradotti in decine di lingue e hanno venduto milioni di copie. Ma anche questi scritti sul futuro vantano una carriera interessante. Pubblicati nel 1964 nella lingua originale, il polacco (Lem era nato nel 1921 a Leopoli, che oggi è in Ucraina), sono stati tradotti in inglese nel 2013, e sono presto diventati un libro di culto, con siti e articoli dedicati. Adesso arrivano in Italia, pubblicati da Luiss University Press, e per un libro sul futuro scritto sessant’anni tondi fa ammetterete che non è un traguardo da poco.
Miti invecchiati
In effetti Summa technologiae è un libro singolare, a partire dal titolo che non si perita di scimmiottare la Summa theologiae di san Tommaso. Rispolverare il titolo di un’opera di filosofia medioevale che tratta, tra l’altro, delle gerarchie degli angeli per un libro che parla dei ritrovati tecnici dell’avvenire è già una buona prova di autoironia, come lo è, per un autore che deve la sua fortuna alla fantascienza, scrivere che si tratta del terreno in cui «si può dire tutto perché non ci si prende la responsabilità di niente».
Qui invece Lem si prende le sue responsabilità, ma senza tracotanza e sempre con un velo di problematicità. Sembra consapevole che ci saranno molti aspetti del suo discorso che dichiareranno inevitabilmente la loro età, anche se ovviamente non può sapere quali. Noi invece li vediamo chiaramente, tanto che il libro ci appare, oltre che uno sguardo vertiginoso su un futuro che allora poteva parere lontanissimo e oggi ci sembra molto meno remoto, un ritratto del modo di vedere le cose di allora.
Per esempio, energia atomica ed esplorazione spaziale sono date per scontate nel futuro di Lem, ma appartengono interamente all’immaginario degli anni Sessanta, che sono gli anni in cui i due blocchi si rincorrevano nella corsa alle armi atomiche e in quella alla luna e che culmineranno nello sbarco americano del 20 luglio del 1969 (tra l’altro con un veicolo che si chiamava proprio LEM, Lunar Excursion Model).
Facile allora immaginare che non ci si sarebbe fermati, e che dopo la luna, e magari dopo le colonie lunari, si sarebbero raggiunti gli altri pianeti e addirittura superato il sistema solare, mentre presto si capì che con i nostri mezzi (e con i nostri limiti biologici) andare oltre era maledettamente difficile e persino arrivare su Marte sarebbe stato un affare complicatissimo.
Allora i viaggi spaziali evocavano immense possibilità, oggi ci ricordano piuttosto i nostri limiti fisici e tecnologici. Idem per l’energia nucleare, che a Lem appariva l’energia del futuro e sviluppabile illimitatamente (anche se, a onor del vero, già citava il problema delle scorie).
In generale in materia energetica serpeggia nel libro una fiducia che oggi ci appare impossibile da condividere, quella di una disponibilità di energia in crescita continua, «ci sono disponibili tutte le forme di energia presenti nell’Universo», così come ci colpisce il fatto che non venga mai messa in questione «la naturale tendenza dell’uomo a dominare l’ambiente circostante» e «l’assalto eroico alla natura che lo circonda».
Lessico immaginifico
Se però ci spostiamo nell’ambito del progresso informatico, le posizioni di Lem anticipano discussioni in cui siamo ancora interamente immersi, e ci aiutano a mettere a fuoco problemi in cui ancora ci dibattiamo. Certo, anche qui bisogna fare credito a Lem di un lessico che non è più il nostro, e che però ci affascina proprio per la sua deliziosa polverosità.
I computer sono “macchine digitali”; l’intelligenza artificiale è l’”intellettronica” o “l’amplificatore dell’intelligenza”, i big data sono le “bombe di megabit”, l’informatica è la “cibernetica” e gli informatici sono “teorici dell’informazione”. Anche i due ambiti in cui rifulge la capacità predittiva di Lem hanno nomi impossibili, ma dietro i quali si intravede qualcosa che oggi è molto meno nebuloso di quel che doveva apparire allora. L’imitiologia (Lem è sempre alla ricerca di neologismi strani, che ci ricordano la “solaristica” di Solaris) è la produzione di entità che nascono dalla ibridazione di procedure biologiche e tecnologiche; la fantomologia è sostanzialmente quello che oggi chiameremmo realtà virtuale.
Sessant’anni fa, Lem già è sicuro che si arriverà a produrre dei simulacri di realtà, indistinguibili dalla vita reale, e ne scruta le possibilità applicative ai fini pratici. Ma capisce anche che potrà essere usata a fini ricreativi, artistici o di intrattenimento, e sembra preconizzare tutti i discorsi di oggi sulle arti immersive. Dalla fantomologia potrà nascere «un’arte nuova che fa dell’antico fruitore un partecipante attivo al centro degli eventi programmati», come ha fatto Alejandro Iñárritu col suo Carne y Arena, in cui usa la realtà virtuale per far vivere ai partecipanti l’esperienza dei migranti che cercano di passare il confine tra Messico e Usa.
Con l’intelligenza artificiale Lem è ancora più profetico. Quando ancora non esistevano programmi capaci di giocare decentemente a scacchi, Lem è sicuro che il computer batterà qualsiasi giocatore umano. E ci vorranno trent’anni per arrivare alla sofferta vittoria del campione del mondo su Deep Blue, e quaranta per la sconfitta definitiva dell’uomo da parte della macchina. Ma gli scacchi sono un calcolo a variabili finite, e quindi, almeno col senno di poi, la previsione di Lem non era così difficile.
Lem, però, vede chiaramente anche la possibilità di arrivare alla intelligenza artificiale generativa. «Viene detto che si potrà automatizzare solo il lavoro mentale non creativo. Ma dove sono le prove?» Teme anzi che ci potremo trovare di fronte a un dilemma che ci suona ormai familiare, ossia se sia giusto prendere in considerazione di vietare l’utilizzo di macchine «il cui potenziale di elaborazione delle informazioni supera la capacità del controllore umano di valutare la veridicità del risultato». Per la cronaca, Lem considera questa possibilità una sciocchezza.
Ma forse la cosa più sorprendente è che Lem capisce chiaramente che andiamo incontro a un intreccio sempre più stretto tra informatica e biologia, tra evoluzione tecnologica ed evoluzione umana. E non pensa soltanto alle inserzioni di protesi o al cyborg. Intuisce che se, da un lato, gli strumenti della tecnologia modificano le nostre percezioni, dall’altro creano un vero e proprio ambiente mediatico, che si evolve in relazione con quello biologico.
Da qui il discorso sulle “due evoluzioni”, quella tecno-scientifica e quella biologica, che corre lungo tutto il libro. Chi voglia persuadersi dell’attualità di questi temi può leggere il libro appena uscito di Michele Cometa, La svolta ecomediale, tutto nutrito di una letteratura recentissima su quella che ormai si è affermata come ecologia dei media. Insomma, non è un caso che a tradurre in italiano Summa technologiae sia stato un letterato, e in inglese un’esperta di media e comunicazione.
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