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Prima si andava in Valle d’Itria per non essere visti, oggi è il contrario: qualche settimana fa, il provinciale suolo pugliese è stato sfiorato dai mondanissimi piedi dell’imprenditrice e influencer Chiara Ferragni e di suo marito, il cantante Fedez.
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Si sono rifugiati in una delle masserie della zona convertite in resort di lusso e, da lì, hanno pubblicato su Instagram le solite foto con lo sfondo pittoreschissimo dell’antico podere rurale.
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Vedendole ho ripensato a quando anch’io frequentavo quella masseria: si chiamava Maizza ed era la cosa più lontana da un resort esclusivo: un centro sociale.
La narrazione della Puglia è cambiata. I paesini sono diventati “borghi”. Per gli aggettivi non si bada a spese: ogni angolo della Valle d’Itria è “magico” o “incantevole”, il bianco dei muri calcinati è “abbacinante”, la vista “mozzafiato”. Eppure in questo paradiso artificiale di resort una volta c’era una masseria autogestita che voleva dare una possibilità a tutti quelli che volevano imparare
Qualche estate fa. Stavo chiacchierando con un amico davanti a una bottiglia di bianco, quando se ne uscì che doveva procurarsi un paio di elefanti. Il fatto è che ci trovavamo in Valle d’Itria, Puglia. Ci sono nato e cresciuto lì, e so che la zona è nota per i trulli e le masserie, gli ulivi secolari, i muretti a secco, le bombette, cose così. È molto raro imbattersi in un elefante. Mi spiegò: le povere bestie servivano per la coreografia di quello che le cronache locali chiamano ancora oggi “il matrimonio indiano”. In uno dei nuovi resort di lusso sulla costa stava per sposarsi «la figlia del più grande magnate indiano del ferro». Non abbastanza magnate da portarsi gli elefanti da casa col jet privato, come i veri signori.
Alla fine il mio amico rinunciò ma i pachidermi arrivarono lo stesso. Da Parigi. Nel “matrimonio indiano” tutto fu elefantiaco. Tutto si contava a centinaia: ospiti, guardie del corpo, cuochi, tir, nani, ballerine, figuranti, chilometri di seta, chili di fiori, panini. A decine solo i milioni spesi dal magnate: dieci secondo un giornale, venti secondo un altro, di cui cinque solo per i fiori.
La surrealtà raggiunse il livello Monty Python quando alcuni generali e ammiragli dell’italico esercito tuonarono che quel matrimonio non s’aveva da fare. Erano i tempi di «E ALLORA I MARÒ?!»: come si permettevano “quelli” di celebrare i loro riti pagani sull’appulo suolo mentre «i nostri ragazzi» languivano nelle segrete indiane? Alla fine il matrimonio si fece. «Sarà un mega-spot per il nostro territorio!», preconizzò Lello Di Bari, sindaco di Fasano nonché unico indigeno a ricevere l’agognato invito (che alla fine declinò perché sospeso dalla carica per via della legge Severino, quella sugli “impresentabili”).
Mega-spot
Era l’estate del 2014 e “il matrimonio indiano” fu davvero un mega-spot per un territorio in rampa di lancio turistica già da qualche anno, location di film e fiction finanziati dalla Apulia Film Commission (nata nel 2007) e segnalato dal New York Times come best place to go. Ogni volta che tornavo in Valle d’Itria, la vedevo cambiare, imbellettarsi. Oggi è tutto un ristrutturare trulli e masserie. In una terra senz’acqua sono spuntate le piscine. Per un mese i centri storici si rianimano, invasi da turisti col borsello e signore in caftano. Parcheggiare è un’illusione. I prezzi crescono. Il “mare libero” si riduce.
Oltre che architettonica, la ristrutturazione è stata lessicale. La narrazione della Puglia è cambiata. I paesini sono diventati “borghi”. Per gli aggettivi non si bada a spese: ogni angolo della Valle d’Itria è “magico” o “incantevole”, il bianco dei muri calcinati è “abbacinante”, la vista “mozzafiato”. Ovvio che questa Shangri-La con cime di rapa finisse per attrarre frotte di vip. Dico “frotte” perché per noi pugliesi il titolo di vip è inflazionato quasi quanto quello di “dottore”.
Dunque, i vip hanno iniziato a onorarci della loro very important presenza calpestando la terra rossa della Valle d’Itria con i loro very important piedi. In vacanza, per sposarsi, con tripudio di articoli sulle “nozze vip”, sempre “da favola” e “blindatissime”, e quindi lidi “off limits” per giorni, con polemichette dei clienti abituali, che si vedono negato l’accesso, e lagnette dei convolanti a nozze, che si vedono negata la riservatezza. Emblematiche le rimostranze di due futuri sposini venuti da New York, ovviamente ricchi, e quindi “rampolli”, ma sconosciuti: non-vip persino per gli standard pugliesi, eppure paparazzati e sbattuti in prima pagina. Fu allora che Flavio Briatore parlò. E ci bacchettò. Disse che noi pugliesi siamo «provinciali» perché «non rispettiamo la privacy di chi non è un super vip» bensì «un signor nessuno che sta bene». E, da uomo di mondo, ci fece notare che a Saint-Tropez certe cose non accadono. In Puglia, invece, «c’è questa provincialità che vi fa sembrare incredibile quando atterra un aereo privato».
Vent’anni fa
Aveva ragione: siamo dei provinciali. Parvenu del jet set turistico: la Puglia di oggi, dei trulli di charme, dei vip, dei resort e dei jet privati, vent’anni fa non esisteva. Vent’anni fa qui era tutta campagna. Infatti ci veniva chi era alla ricerca di atmosfere agresti, sovrumani silenzi e profondissima quiete (e prezzi ridicoli). Prima si andava in Valle d’Itria per non essere visti, oggi è il contrario: qualche settimana fa, il provinciale suolo pugliese è stato sfiorato dai mondanissimi piedi dell’imprenditrice e influencer Chiara Ferragni e di suo marito, il cantante Fedez. Si sono rifugiati in una delle masserie della zona convertite in resort di lusso e, da lì, hanno pubblicato su Instagram le solite foto con lo sfondo pittoreschissimo dell’antico podere rurale.
Vedendole ho ripensato a quando anch’io frequentavo quella masseria: si chiamava Maizza ed era la cosa più lontana da un resort esclusivo: un centro sociale. Quasi okkupato. Io ci andavo a vedere i concerti, per pogare, schiantarmi contro i miei simili, ossa contro ossa, rabbia contro rabbia, mentre qualche band dal nome cazzutissimo ci rovesciava addosso chilowatt di frastuono e urla furibonde: in altre parole, hardcore. Nel senso di musica.
Letteralmente “hardcore” vuol dire “nocciolo duro” ma ha assunto un significato più ampio, con cui si indica la versione più spinta o estrema di qualcosa. In questo caso prendiamo il punk: esasperiamone velocità, grettezza, brutalità, violenza, deviamone la rabbia dal binario del nichilismo “no future” per indirizzarla verso un atteggiamento propositivo, di chi un futuro vuole costruirselo, rimboccandosi le maniche e cominciando col creare spazi fisici nei quali cooperare e provare a mettere in pratica certe idee, a volte utopiche, come anarchismo o rifiuto dell’autorità e del capitalismo, altre ancora attuali, come ambientalismo o lotta al sessismo. Ecco, la masseria Maizza era uno di quegli spazi lì, centro di gravità poco permanente della locale scena alternativa, musicale e non solo.
Ci sono tornato qualche giorno fa. La torre è ancora lì e così il portone di ingresso, nelle mura fortificate, attraverso cui mi viene incontro un ragazzo, sofferente in quanto incravattato in un clima equatoriale, e mi spiega cortesemente che, senza appuntamento, non posso entrare. Mentre me ne vado, mi torna in mente quando a controllare l’ingresso c’era Antonello degli Shock Treatment.
Erano una band hardcore della zona, anzi, la band. Originari di Fasano, gli Shock Treatment erano il motore di Maizza: la masseria autogestita era casa loro, si reggeva sulle loro spalle, anche se gran parte del peso (le rogne) lo portava Antonello L’Abbate, fondatore, leader e cantante del gruppo. Per fortuna le aveva larghe davvero le spalle. Era l’anima di quel posto. Lui solo può raccontare cos’erano Maizza e la Puglia prima che arrivasse l’Era dei resort. Lo chiamo. Rifiuta: rifugge nostalgia e retorica. Lo rassicuro. Accetta. Mi invita a casa.
Oggi Antonello fa il restauratore di mobili e vive, con compagna e figlia quindicenne, in un complesso residenziale appena costruito alla periferia di Fasano. Mi accoglie scalzo. Ha cinquantasette anni portati bene: le spalle sono sempre larghe, il corpaccione incute sempre timore, la faccia è sempre truce, di uno che “po’ esse’ piuma e po’ esse’ fero” ma dentro è piuma. Insomma, una persona buona. Che è meglio non far incazzare.
Comincia lui. E lo fa dalla fine: «Maizza è finita nel 2002 e nessuno ha mai capito bene perché».
La masseria risale al XVI secolo ma Antonello ne racconta la storia dal 1992 quando era «abbandonata, come quasi tutte le masserie della zona. Il proprietario era un miliardario che, con tre figli affetti da malattie mentali, diede Maizza in comodato d’uso gratuito per dieci anni a un’associazione che si occupava di malati mentali».
Il primo contatto con gli Shock Treatment avviene un anno dopo, quando la band affitta il posto per festeggiare la pubblicazione del primo album: Antonello aveva fondato il gruppo nel 1989, dopo una carriera da calciatore professionista (portiere) nelle serie minori, che gli aveva impedito di completare gli studi in geologia. «Non avevo mai cantato in vita mia per cui abbiamo iniziato col punk». La svolta hardcore arriva quando, nel centro sociale di Brindisi, entrano in contatto con la parola chiave: «Attitudine…», e ridacchia fiutando il pericolo, nostalgia e retorica in agguato. «È un modo di fare le cose. L’hardcore è una scelta di vita, almeno per me. Il principio di base era “restiamo fuori”: dai canali ufficiali, dai negozi di dischi, da ogni circuito, per provare a crearne uno alternativo, in cui, ad esempio, dischi e concerti costano poco (a Maizza mai più di cinquemila lire)».
Nel 1996, dopo il tentativo di occupare uno stabile a Cisternino, fallito in 24 ore con sgombero, polizia e denunce, gli Shock Treatment e le trenta persone che vi gravitano attorno, sono ancora alla ricerca di uno spazio. Quando l’associazione che se ne occupa propone loro di subentrare nella gestione della masseria Maizza, accettano con l’idea di trasformarla in centro sociale, non okkupato con la kappa, ma occupato con la ci, ovvero legalmente, «anche se la parola “legalità” ci spaventava», ride Antonello.
Un pilastro della filosofia hardcore è il Diy, Do It Yourself, ovvero “fai da te”: «La masseria stava crollando, passammo l’inverno a sistemarla. Rifacemmo il pavimento, ricavammo due sale prova al piano superiore della torre, recuperammo le cucine e una sala per fare i concerti al chiuso. Per finanziarci organizzavamo un concerto e, con le duecentomila lire che tiravamo su, rimettevamo a posto un pezzetto di masseria».
Le Rogne
A ogni concerto, il successo di Maizza cresceva: «Eppure ci imponemmo la regola di farne solo uno al mese e un festival di tre giorni una volta all’anno. Non volevamo trasformarla in un locale perché eravamo spesso in tour e nessuno aveva tempo di occuparsene». Delle rogne, invece, si occupava sempre Antonello: «La peggiore fu quella con la Siae». “Restare fuori” significava che «nessun gruppo della scena hardcore depositava i propri brani alla Siae e quindi nessuno prendeva soldi con i diritti d’autore», una scelta inconcepibile per i burocrati che dovevano controllare. «Eppure era così: a Maizza suonavamo solo musica di gruppi che non avevano nemmeno un brano depositato, ma alla Siae non ci credevano e continuavano a chiederci soldi. Alla fine ci andai con un avvocato e raggiungemmo un accordo: a ogni serata, avremmo pagato una somma forfettaria di centomila lire».
Ma non c’erano solo i concerti mensili e il festival annuale: a Maizza ci andavano le band locali per esercitarsi nelle sale prova, si curava l’agrumeto, si raccoglievano le olive, si organizzavano rassegne e laboratori di ogni tipo, dal teatro alle marionette al restauro, «infatti è lì che ho imparato il mestiere» mi svela Antonello: «Se uno aveva voglia di inventarsi un lavoro, poteva farlo negli spazi della masseria che erano a disposizione di tutti».
A Maizza ogni cosa era sui generis: «Abbiamo imparato da luoghi mitici come El Paso di Torino, sviluppando poi uno stile nostro, dalla musica al resto. Perché siamo meridionali, provinciali». Un handicap per Briatore, un vantaggio per Antonello: «I problemi li gestivo “alla paesana”, con i balordi, la polizia, i contrabbandieri».
Non si capisce la Puglia di quegli anni senza accennare al contrabbando: «Fasano era la città della provincia di Brindisi con più banche, pur non essendoci attività di rilievo. Negli anni Ottanta era stata la capitale dell’eroina, negli anni Novanta lo fu del contrabbando di sigarette». La zona, dalla Valle d’Itria al mare, era teatro dello scontro impari tra finanzieri, dotati di utilitarie, e contrabbandieri, alla guida di mezzi blindati su cui le sigarette (e non solo), scaricate dai motoscafi offshore che facevano la spola con le coste albanesi o montenegrine, venivano trasportate nei nascondigli dell’entroterra. Convogli di fuoristrada simili a carri armati, con motori truccati e carrozzerie blindate con grate, punte di ferro e rostri metallici per speronare o togliere di mezzo qualunque ostacolo sulla carreggiata, percorrevano le strette stradine di campagna a fari spenti e velocità folle.
Ragazzi appostati sugli alberi lungo il tragitto segnalavano via radio eventuali pattuglie. Lo sapevamo tutti che guidare in campagna di notte era pericoloso: i contrabbandieri facevano precedere i blindati da un’auto che obbligava chiunque si trovasse lungo il tragitto ad accostare, per evitare incidenti. Non sempre ci riuscivano. Girava voce che chi subiva un danno venisse indennizzato: «Io so di gente che è stata buttata fuori strada finendo in ospedale», dice amaro Antonello, «e nessuno li ha mai risarciti».
“Scaricare”
Tra scafisti, autisti, scaricatori, pali e venditori, il contrabbando coinvolgeva un gran numero di persone.
Erano tanti i ragazzi che aiutavano a “scaricare”: in una sera si guadagnava molto di più che a fare il cameriere. “Il contrabbando dà da vivere a un sacco di gente altrimenti disoccupata” era la vulgata: «Io non l’ho mai vista così», dice Antonello, «troppo comodo fare il palo per centomila lire facili facili, invece che imparare un lavoro. E intanto i capi si compravano la città.
C’è stato un periodo in cui si sentivano così onnipotenti da sfilare con i blindati nel centro di Fasano e Savelletri, in pieno giorno, a volto coperto, solo per il gusto di passare di lì, come a dire “i padroni della città siamo noi e nessuno ci può fare un cazzo”. Era pesante».
Come molte masserie abbandonate, anche Maizza era un nascondiglio per le sigarette ma, dopo la concessione in usufrutto, i contrabbandieri smisero di utilizzare le sue grotte continuando però a servirsi della stradina che la costeggiava, «finché non si accorsero che, quando c’era un concerto, si intasava di auto e i loro blindati non riuscivano a passare». In quanto rogna, toccò ad Antonello risolverla “alla paesana”: «Era gente di Fasano, qualcuno lo conoscevamo di persona: ci contattarono, chiedendoci di avvisarli dei concerti, così da potersi organizzare. Fu una sorta di tolleranza reciproca: noi abbiamo tollerato loro e, soprattutto, loro hanno tollerato noi, perché, se avessero voluto, avrebbero potuto dirci “Compa’, noi dobbiamo passare da questa strada, quindi niente concerti”».
Il contrabbando è scomparso tra il 2000 e il 2001. La notte del 23 febbraio del 2000 un blindato sperona una Punto con quattro finanzieri a bordo, due di loro perdono la vita e scatta l’Operazione Primavera: 1.900 militari spediti in Puglia per le pulizie stagionali.
«Lo fecero a piedi», ricorda Antonello, «controllarono metro per metro la campagna, ogni buco e casolare. Fu strano quel periodo: uscivi di casa e trovavi l’esercito. Vennero anche a Maizza: un giorno sentii il cane abbaiare, andai al cancello e c’erano quattro soldati in tenuta da guerra, con mitra enormi in posizione di tiro».
Nel giro di un anno, l’era del contrabbando finisce. Comincia quella dei resort. La Puglia hardcore inizia la transizione verso il softcore.
Oggi a percorrere le stradine di campagna si rischia di rimanere bloccati da van neri guidati da autisti in camicia bianca che scarrozzano gli ospiti dei resort verso chissà quali esperienze indimenticabili. Sono rimasti i rifiuti ai lati delle strade: sacchetti dell’immondizia, cessi rotti e ferraglia spiccano sullo sfondo dell’immacolata perfezione dei campi da golf, da cui li separano solo i muretti a secco patrimonio dell’Unesco.
Nel 2002 si conclude anche l’esperienza di Maizza: «È finita così, di colpo, senza un volantino, niente». Antonello è ancora incredulo. «Alla scadenza del contratto hanno riconsegnato le chiavi al proprietario. Io ne ero uscito già da due anni perché facevo domande sul futuro e gli altri tergiversavano. È stato doloroso: avevo costruito quel posto, ci tenevo».
Ma «l’attitudine resta» e per questo Antonello soffre ancora: «La fine di Maizza per me è una doppia sconfitta, sia perché di quell’esperienza non è rimasto niente, sia per ciò che è diventata la masseria. L’aia era il luogo in cui i contadini si incontravano e organizzandovi i concerti avevamo restituito a quello spazio la sua funzione sociale. Oggi sono luoghi chiusi, elitari».
Oggi non ci sono più nemmeno gli Shock Treatment, sciolti nel 2003. Sull’hardcore italiano degli anni Novanta si pubblicano libri (l’ultimo è Disconnection, Tsunami edizioni), a Maizza ci va Chiara Ferragni e i ragazzi comprano le t-shirt dei Black Flag nei negozi di abbigliamento senza sapere chi sono ma perché il logo è bello (è bellissimo).
Oggi in Puglia ci vengono da tutto il mondo. Dal Costa Rica, nel 2013, è arrivato anche un batterio: non siamo riusciti a metterci d’accordo su come fermarlo e il risultato è che, in otto anni, partendo dal Salento, la xylella fastidiosa ha ucciso milioni di ulivi. Basta farsi un giro verso Lecce, dove il batterio è già passato, per vedere come potrebbe apparire a breve la Valle d’Itria: un paesaggio desertico nel quale la presenza di un elefante non sembrerà più così incongrua.
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