- Vladimir Putin, rilanciò nel cielo di tutte le Russie la voce suadente di uno degli ultimi epigoni della destra hegeliana, Ivan Il’in, appassionandosi del suo pensiero fino al punto da cirarlo in tutti i suoi più importanti discorsi da quegli anni in poi.
- L’intera oligarchia, autorità religiose comprese, se ne imbevve, propinandolo alla gioventù come una sorta di manuale della cultura politica russa.
- Che cosa affascinava così profondamente l’apparato putiniano in questo pensiero, scarsamente distinguibile da un delirio gnostico fuori tempo massimo?
«Solo alla metà del XX secolo gli abitanti di molti paesi europei sono arrivati a capire, di solito attraverso la sofferenza, che libri di filosofia complessi e difficili hanno un influsso diretto sul loro destino». Czeslaw Milošz, il grande scrittore e Nobel polacco, autore de La mente prigioniera, in esilio a Parigi dopo aver abbandonato la Democrazia Popolare polacca, lo scriveva nel 1953. Si riferiva alla grande filosofia classica tedesca che era culminata nell’opera di Hegel, e attraverso Marx e poi Lenin aveva senza dubbio accompagnato, nella mente dei responsabili, l’idea della futura umanità redenta in nome di cui si era consumata – per dirla con lo storico londinese Orlando Figes, la tragedia di un popolo. O meglio, di molti popoli, dal punto di vista di Milošz. Di lì a poco sarebbe morto Stalin.
Chi lo avrebbe detto, che oggi dovessimo riscoprire la verità di quelle parole di Milošz. Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991, il sogno di una trasformazione democratica effettiva della Federazione Russa era svanito insieme con il kairos di quel nuovo ordine mondiale che Gorbacev aveva provato a proporre all’Occidente, un ordine che legava indissolubilmente il rinnovamento democratico della Russia con la sua integrazione nella casa comune europea e il disarmo graduale e definitivo dei due blocchi.
Lo storico Timothy Snyder (La paura e la ragione, Rizzoli 2018) afferma che l’America ci mise del suo, nella misura in cui, secondo una convinzione tradizionale, «contribuì al disastro suggerendo che i mercati avrebbero creato istituzioni, anziché sottolineare che le istituzioni erano indispensabili per i mercati».
Dietro il disastro
Non è di questo che vogliamo parlare: ma di come, a disastro avvenuto, il successore della cleptocrazia eltsiniana, Vladimir Putin, rilanciò nel cielo di tutte le Russie la voce suadente di uno degli ultimi epigoni della destra hegeliana, Ivan Il’in (1883-1954), appassionandosi del suo pensiero fino al punto da organizzare una esumazione del filosofo, morto dimenticato in Svizzera, per riseppellirlo in pompa magna a Mosca nel 2005, e citandolo in tutti i suoi più importanti discorsi da quegli anni in poi.
L’intera oligarchia, autorità religiose comprese, se ne imbevve, propinandolo alla gioventù come una sorta di manuale della cultura politica russa.
Che cosa affascinava così profondamente l’apparato putiniano in questo pensiero, scarsamente distinguibile da un delirio gnostico fuori tempo massimo? Forse non i lati più superficiali.
Il’in, fascista fin nelle vene, fu un ammiratore di Mussolini e di Hitler. In lui la corrente slavofila e ipertradizionalista del “mondo russo”, ovviamente comprensivo in primo luogo della triade Grande Russia, Ucraina e Bielorussia, si modernizza a contatto coi dittatori degli anni Venti e Trenta, e paradossalmente li sostiene tutti, compreso Stalin di cui giustifica a posteriori la politica sanguinaria (che pure aveva descritto nei suoi libri) con la teoria dell’accerchiamento di questa patria di Dio, la Russia, da parte del mondo degenerato, sessualmente corrotto, e soprattutto intollerabilmente individualista dell’Occidente: perché «il Male inizia dove inizia la persona».
Ecco: con questa citazione siamo giunti al cuore di questa gnosi, che forse l’occhio dello storico non penetra fino in fondo.
Certo, Il’in era anche un giurista e un filosofo politico, ispiratore di molte delle misure con cui l’oligarchia russa ha costruito una “politica dell’eternità”, cioè uno stato totalmente coincidente con i suoi governanti attuali e totalmente impermeabile al dissenso.
Snyder insiste sull’ «uccisione del futuro politico» che «costringe il presente a essere eterno» – e quindi a prolungare ogni possibile crisi e a esaltare ogni potenziale minaccia esterna.
Perché una regola di successione al potere, né monarchica né democratica, non c’è. Ma fare da specchio a questa perfetta assenza di futuro, accettare in pieno questa sfida disperata e cieca, riarmarsi fino ai denti, ridere e scherzare col sultano turco che ha murato vivi tutti i difensori dei cosiddetti “valori occidentali”, vendergli i dissidenti curdi, purché levi ogni ostacolo all’entrata di Svezia e Finlandia nella Nato, stracciare ogni residua speranza di un unione politica europea autonoma rispetto alla politica estera americana: è questo, da parte delle leadership occidentali, il modo di preparare qualcosa di alternativo all’apocatastasi, che sarebbe la reintegrazione della Russia nella gloria di Dio e la fine del mondo, del tempo e della storia?
Il gigantesco errore
Perché l’idea di Il’in era proprio questa. Il mondo e la storia sono un gigantesco errore: nel tentativo di creare l’altro da sé, Iddio disintegrò se stesso. Il big bang dell’unica e totale verità. Ciò che restava di questa, divenne la Russia.
La Russia eterna, innocente e sofferente. Il mondo e il tempo sono la dimensione della non identità, cioè del non essere, del nulla, del peccato e del sesso.
Sesso a parte, sembra di riascoltare una curiosa versione slava del Severino-pensiero: un paio di categorie dialettiche pronte ad accogliere e frullare le infinite nequizie del nichilismo, dell’Occidente e della sua storia. Solo che qui la salvezza non sono gli enti eterni un po’ impalpabili del nostro vate, ma la Russia eterna.
Ecco: vale la pena di prendere sul serio queste idee, solo perché, saldato con speculazioni ancora più improbabili, fiorite nelle menti di “filosofi” che la tragedia sovietica aveva strizzato o addirittura stritolato, compaiono nei documenti ufficiali della politica russa?
E’ ancora Snyder che ce ne informa: la Concezione della politica estera della Federazione russa, con la firma del ministro degli esteri Sergej Lavrov e l’approvazione speciale di Putin, a partire da 2013 si ispira al Manifesto Eurasiatico di Alexandr Prochanov, popolarissimo scrittore fascista e antisemita, che appare volentieri in televisione anche con Putin.
Una teoria del complotto liberal-giudaico dei popoli del mare (leggi: atlantismo), che con il loro diritto astratto e sradicato attanagliano e minacciano il popolo della terra (Eurasia), dove Carl Schmitt fa da struttura mitologica al nazibolscevismo di Aleksandr Dugin e all’Eurasiatismo astro-cosmico di Lev Gumilëv, questo figlio del grande poeta Stepan Nikolaevic Gumilëv, e di Anna Achmatova.
Sul figlio dei poeti bisognerà tornare, perché è un emblema della tragedia russa. Il padre giustiziato nel 1921, e lui sopravvissuto a quindici anni di gulag: la sua mente si volse alle stelle, ma l’anima stritolata si identificò al suo carnefice, e cantò la potenza dell’impero sovietico nutrita dalla gioventù dei raggi cosmici.
Idee prese sul serio
Prendere sul serio tutto questo, dunque? Sì, perché in quei documenti sulla politica estera russa compare l’Ucraina, come cartina di tornasole che deciderà della vittoria del popolo eurasiatico sull’Unione Europea. E, molto di più, perché l’Unione europea sta operando, in questo momento, esattamente come la geopolitica, questa pseudoscienza imbevuta di mitologie schmittiane e di una concezione della guerra come essenza della politica, vuole che faccia: un blocco cieco di idee ma forte d’acciaio e di bombe che si estende da Kiev all’Atlantico, detto “Occidente”.
Fanfare e bandiere per la promozione dell’Ucraina a candidato europeo da parte di un Unione mai come ora nelle mani dei governi nazionali: i quali, a differenza di Putin, non vivono di “eternità” ma di puro presente politico, cioè di sondaggi. Il risultato è lo stesso: l’uccisione del futuro dell’Unione.
E’ qui, forse, che giova prendere sul serio la filosofia più di quanto gli storici siano abituati a fare. Perché gli occhi per vedere il futuro, se il futuro siamo infine noi che lo facciamo, non ce li dà la storia.
Gli occhi per un futuro migliore ce li danno le idee di ciò che è giusto – e possibile. Appiattire l’ideale sul reale - su ciò che la storia “porta” – è il peccato di tutti gli hegeliani: che non hanno bisogno di demonizzare le persone, basta loro disprezzarle in silenzio, come «polvere sugli stivali della storia» (Hegel).
Possibile e giusto era fare la vera Unione europea, oggi: questo era il kairos che stiamo dissipando. Dare vera e sovranità, e forza per difenderlo, al diritto che sovrasta gli interessi nazionali, e aborrisce la lotta per l’egemonia imperiale, non onorando altro imperio che quello della legge.
Eppure la Conferenza sul Futuro dell’Europa, frettolosamente chiusa il 9 maggio scorso, aveva visto partecipare cinquantamila singole persone.
Non cinque e non cinquanta milioni: cinquantamila, il soffio e il fiore di chi sa sperare. E ne erano sortite 49 proposte: tutte, a partire dall’abolizione del potere di veto dei singoli stati e quindi della regola dell’unanimità per le decisioni cruciali dell’Unione, fatte perché gli Stati Uniti d’Europa finiscano di nascere, e il modello dell’integrazione dei diversi possa vincere, come anche Snyder voleva, l’impero dei migliori. Qualcuno se ne è accorto?
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