Potenza della poesia: recensendo qualche giorno fa la nuova edizione della Terra desolata di T.S. Eliot, resa “devastata” dalla curatrice Carmen Gallo, avevo evocato le catastrofi che lastricano la marcia del progresso; a stretto giro ha reagito la filosofa Roberta De Monticelli per difendere, invece, le ragioni della ragione. A rendere più concreta la discussione sono le notizie che ci giungono dall’Afghanistan, terra realmente devastata le cui vicende si prestano a una duplice lettura: chi, come De Monticelli, sembra vedere nel trionfo dei Talebani ciò che accade quando ci si arrende al relativismo; e invece chi, come il sottoscritto, tende a interpretare simili tragedie umanitarie come conseguenze inevitabili dei nostri tentativi di imporre il bene con la forza. Molte firme di questo giornale parteggiano per la prima, a partire dal direttore Stefano Feltri che ha scritto: “Esportare democrazia e diritti rimane un dovere” (se possibile, precisa, senza le bombe).

Il dilemma è lo stesso che occupa chi provi a tradurre il titolo del celebre capriccio di Goya, El sueño de la razón produce monstruos: il problema è il sogno oppure il sonno? Troppa ingerenza o troppa poca? È difficile, credo, negare che l’orrore in Afghanistan sia stato amplificato e potenziato dai mezzi tecnici messi a disposizione dalle potenze imperialiste che, in nome dei loro opposti illuminismi, si sono affrontate lungo decenni per civilizzare la regione. Ma De Monticelli distingue: non bisogna «confondere i crimini coloniali e la ragione» o «peggio, attribuire alla ragione i crimini coloniali, e gli altri più recenti». Qui non s’intende con ragione una particolare facoltà mentale, quella di ordinare i pensieri in modo logico, ma un sistema di valori che gira, come la filosofa ricorda, attorno all’ideale universalista — il principio secondo cui esistono dei valori etici condivisi da tutti gli esseri umani, e che sia un dovere morale garantirli. Chi oserebbe mai affermare che questo altissimo ideale sia causa di violenza?

Un excursus

Facciamo un rapidissimo excursus storico: i primi a farlo furono i pensatori controrivoluzionari, nostalgici dell’Antico regime; poi vennero i giuristi tedeschi della cosiddetta Scuola storica, che denunciavano le mire imperialiste della Francia bonapartista; ma a rendere realmente popolare la critica del pensiero progressista a cavallo tra Ottocento e Novecento fu Nietzsche, che si impegnò a dimostrare che dietro ai più alti principi si nasconde sempre qualche secondo fine, dietro ogni mascheramento sociale un tessuto di violenze. È nella seconda metà del Novecento che questo filone di pensiero contro-illuminista, classicamente conservatore, s’intreccia con il marxismo e l’anti imperialismo di sinistra, prendendo varie strade, tra cui quella della Scuola di Francoforte e quella dello strutturalismo francese. Le ragioni della Germania ottocentesca erano ormai quelle dell’Algeria, del Vietnam, dell’America latina. Oggi il pluralismo giuridico trova terreno fertile nei paesi islamici, dove la sharia generalmente oppone resistenza alle tendenze centralizzatrici.

Ma già Marx considerava i diritti umani come un inganno borghese. Più che di destra o sinistra, a noi pare che la questione sia strategica: i colonizzatori (siano essi romani, francesi, sovietici o americani) tendono a difendere ideali universalisti, mentre i poteri territoriali (che siano eroici guerriglieri o clan di narcotrafficanti) traggono una rendita di posizione dalla difesa dei costumi locali, spesso patriarcali o reazionari. Gli interessi inconfessabili non sono soltanto da una parte. Scale di dominazione diverse si oppongono e sembrano imporci la scelta del male minore.

A prima vista è una scelta facile, a meno di spingere il relativismo là dove confina con la malafede: appare indubbiamente migliore una società dove le donne non vengono segregate, le minoranze oppresse, la legge esercitata in maniera arbitraria. Quasi per definizione, la civilizzazione è preferibile alla barbarie. Ma quanta violenza siamo disposti a scatenare perché il bene trionfi? E sarà mai sufficiente? Forse la questione era mal posta fin dall’inizio: il problema non è mai stato se esistano dei valori universali, ma se qualcosa di buono possa attecchire senza predisporne le condizioni sociali, economiche, demografiche, culturali, linguistiche, urbanistiche, infrastrutturali, rispettando tempi storici incomprimibili, investendo enormi quantità di risorse, spostando montagne e deviando il corso dei fiumi. Una società in cui le donne non vengono segregate, le minoranze oppresse, la legge esercitata in maniera arbitraria è indubbiamente preferibile perché se lo può permettere. Ma se fosse così facile si saprebbe: e invece, quante modernizzazioni fallite nell’ultimo secolo. E quanti territori lasciati peggio di prima, quante terre devastate – anche nelle nostre periferie, nelle nostre campagne, nelle nostre prigioni, nelle nostre discariche.

La resistenza del reale

La ragione che fa danni è quella che non tiene conto della resistenza del reale, e procede come un treno fino a sbattere contro il muro, perché scambia la mappa col territorio. In questo caso il rimedio si rivela peggio del male, già orribile. Eliot lo esprimeva così: «Un tempo chi voleva interferire con le faccende degli altri tramava con discrezione, mentre oggi lo rivendica apertamente in nome dell’interventismo». Ma Eliot, il conservatore Eliot, l’amico di Ezra Pound, non è certo un testimone neutrale: è solo uno dei tanti vati scomodi dell’antimodernismo, esponente di una generazione che ai danni collaterali della civilizzazione non ha saputo opporre altro che la fascinazione per la barbarie.

Il compito della nostra generazione, invece, è d’immaginare un universalismo sostenibile, una ragione ragionevole, un progresso non devastatore. Se il relativismo ci pare troppo spaventoso, forse basterà temperare la nostra aspirazione al bene con un po’ di sano scetticismo: siamo davvero sicuri di quello che ci appare universalmente giusto? Siamo davvero sicuri di essere in grado di dare lezioni ad altri? Siamo davvero sicuri che il rimedio che proponiamo non sia peggio del male? Ma soprattutto, abbiamo i mezzi per non lasciare il lavoro a metà? Insomma i nostri buoni propositi possono permettersi un impero?

Osserviamo come sta andando a finire in Afghanistan: l’ideologia dei Talebani è spaventosa non in quanto arcaica morale di pastori, ma proprio perché aspira a essere un universalismo; oggi può finalmente imporre un’unica legge su un ampio territorio, parassitando le infrastrutture statali messe in piedi dai modernizzatori. Questa è un’altra cosa che ci ha mostrato la storia delle catastrofi novecentesche, ovvero quanto sia facile dirottare un sistema costruito con le migliori intenzioni per farne una macchina di morte.

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