Luca Guadagnino, più William S. Burroughs, più un Daniel Craig che seppellisce l’icona James Bond, più una produzione megagalattica (The Apartment del gruppo Fremantle, Guadagnino co-firma con Lorenzo Mieli) che ha ricostruito un intero quartiere di Mexico City anni Cinquanta a Cinecittà: la somma dei quattro fattori autorizza ad attendersi il capolavoro.

Duole guastare la suspense anzitempo, ma Queer, il più spasmodicamente atteso dei cinque titoli italiani in concorso a Venezia 81, un capolavoro non è. Nelle trasposizioni di Burroughs su schermo finora David Cronenberg è e resta l’uomo solo al traguardo, come Coppi. La sua apoteosi è Il Pasto Nudo, 1991. La speranza era che il talento di Guadagnino, alle prese con il romanzo breve di Burroughs letto da adolescente e sognato per oltre trent’anni, sfornasse una nuova pietra miliare. C’era da essere più visionari, e su questa soglia Guadagnino ha fallito il bersaglio. Il film esce in Italia con Lucky Red in data ancora da definire.

FOTO YANNIS DRAKOULIDIS

Il libro di Burroughs

Burroughs ha scritto Queer tra il 1951 e il 1953, ma il manoscritto è arrivato alle stampe con la Viking Press solo nel 1985. In Italia era diventato, nel titolo, Diverso per Sugar e Checca per Adelphi, prima di riconquistare il suo titolo originale. Era stato un libro sofferto. Come ebbe a dire l’autore in seguito, a metà scrittura: «Sentivo un blocco, mi sentivo impossibilitato a leggerlo, figuriamoci a scriverlo». «Il passato era un fiume velenoso, mi sentivo fortunato ad esserne uscito, quella forza che mi bloccava era ciò che aveva generato il libro stesso, un evento che non viene mai citato, né nominato, ed evitato con cura: l’incidente con la pistola che uccise Joan (la moglie di Burroughs, NdR) nel 1951».

Dichiaratamente autobiografico, il secondo romanzo di B., sequel del suo titolo d’esordio, Junky, racconta la storia d’amore di William Lee, alter ego dello scrittore e americano espatriato in Messico con chiara dipendenza da oppiacei, con un ragazzo scostante dall’aria perbene, Eugene Allerton. Lee persuaderà Eugene a seguirlo nelle sue peregrinazioni in America Latina alla mitica ricerca di una sostanza allucinogena, lo yagé o ayahuasca (per i locali) che svilupperebbe facoltà telepatiche. Lee è un tossico perso, cerca in realtà qualcosa di più efficace di coca ed eroina, ma il suo pretesto è che gli scienziati russi starebbero usando lo yagé per esperimenti di controllo della volontà.

Luca Guadagnino dice di partire da una frase di Burroughs tratta dal suo diario privato, una domanda formulata poco prima di morire: «Come può un uomo che vede e sente essere altrimenti che triste?». E ci introduce a un William Lee-Craig quarantenne sconciato da un taglio di capelli assassino ma dandy, completi di lino bianco, occhiali e il carisma di 007, che non puoi liquidare in un battibaleno. Tra sbronze di mezcal e tequila, tra una sniffata e una siringa, tra un rimorchio e l’altro nei bar frequentati dai queer di Città del Messico, Lee al ralenti ha la visione di un ragazzo alto, snello, volto angelico e aria distinta (Drew Starkey). È un lungo corteggiamento, perché Eugene si vede con una ragazza, resiste alle avance, lo manda in bianco. Ma il sesso, quando arriva, è molto convincente e dettagliato.

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Craig è indicibile: giullare e implorante, vulnerabile e tossico d’amore, con il sudore che cola nei blow job e nell’appagamento. Un po’ supplicando e un po’ ricattando, riesce a trascinare Eugene in un vagabondaggio tra i paesi del Sud America che occupa il secondo capitolo del film.

Che era partito bene, con la sua brava patina anni Cinquanta e Jean Marais che entra nello specchio nell’Orfeo di Jean Cocteau, guarda caso presentato proprio a Venezia nel 1950. Qui però il racconto comincia a cadere, mentre prova a sovrapporre i problemi di dipendenza oppiacea di Lee alla dipendenza ossessiva da sesso, che il partner non sempre gradisce. È l’ora delle confessioni, estratte dalla viva pagina di Burroughs: «Non dimenticherò mai l’inenarrabile orrore che mi raggelò la linfa nelle ghiandole ( …) quando quella parola perniciosa lasciò un marchio a fuoco sul mio cervello vacillante: omosessuale. Ero un omosessuale».

Una schiera di finali inesatti

Il terzo capitolo, con grande dolore di noi estimatori solerti di Guadagnino, rasenta il comico. Anche volontariamente. L’avventura nella giungla ecuadoriana di Lee e Eugene, alla ricerca della dottoressa nativa che dovrà procurare l’agognato yagé, è introdotta da un serpente-cane da guardia che li aggredisce spedendoli in un capitombolo splastick.

Da "sballati”, per effetto della sostanza che si è rivelata una pianta infestante reperibile ovunque, faranno un viaggio onirico, devastante, nell’incubo. Guadagnino deve spremerlo dalla sua fantasia, perché Burroughs non dà supporti. Purtroppo. Seguono, nell’epilogo, vari finali, e mai quello giusto. Ritroviamo due anni dopo Lee nello stesso bar, dove, come nel Roxy Bar di Vasco, prima o poi si ritrovano tutti. Eugene è sparito da qualche parte in un viaggio improbabile. Lee può solo sognarlo in quel gesto di tenerezza segreto che è stato incrociare la propria gamba con la sua mentre era in preda ai tremiti dell’astinenza: più intenso di tanti orgasmi.

Tra i tanti, c’è anche un finale lynchiano, con Craig che in sogno spia un sé stesso in miniatura in un corridoio rosso, in procinto di sparare ad Eugene, il suo amore perduto. La musica è supercool, Guadagnino non tradisce. Per lui comunque «è una storia universale d’amore, e sul modo in cui le persone possono amarsi, e sulla tragedia di non essere nello stesso posto nello stesso momento pur essendo entrambi innamorati».

È bello, oltreché sacrosanto, sentirgli dire che da omosessuale avrebbe considerato «insultante» scegliere un attore gay per il suo Lee, «come se una persona venisse definita dalla sua identità di genere o dalla sua sessualità». Chissà come tradurranno queer in italiano. Frocio è un termine ambivalente: la comunità gay per sé stessa non lo usa come un insulto, è come il termine dispregiativo nigger in bocca agli afroamericani: identità.

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