Sospeso tra il mondo dei Club Dogo e quello di Raymond Chandler, Morte di un trapper è un romanzo noir. Storie di ragazzi che nei loro testi raccontano il mondo così com’è, non come vorrebbero che fosse
Come fai a ascoltare sta me**a? L’oggetto in questione è la musica rap e trap italiana che sta fissa nella top ten di Spotify e fa visualizzazioni a sei zeri su YouTube. A questa domanda ho cercato di rispondere con un romanzo, un giallo, Morte di un trapper, da HarperCollins.
Chi me lo chiedeva non erano solo vecchi fan di Guccini o del progressive, con l’eskimo e le Clark – sì, ci sono ancora, almeno tra i miei amici – ma anche colleghi, giornalisti, lavoratori della cultura, autori televisivi che ormai da anni, per scelta o sopravvivenza, fanno surf sull’onda del pop, vanno ai concerti dei Radiohead e dei Blur, hanno digerito l’indie di Manuel Agnelli e Baustelle e in macchina ascoltano Calcutta.
Ma non si sono fatti trovare pronti allo tsunami della trap, forse perché ci ha invecchiati di colpo: usciti dalla strada, e non dal laboratorio delle case discografiche, i trapper hanno fatto tabula rasa del passato, rendendosi così inaccessibili a chi di noi ha un bagaglio culturale che proprio al passato fa riferimento. Parafrasando Humphrey Bogart questi ragazzi ci stanno dicendo: «È il futuro, bro! E tu non puoi farci niente! Niente».
O forse puoi provare a entrare nel loro flow – il flusso, termine che indica la metrica utilizzata dai rapper – e ascoltare quello che stanno dicendo. Spesso le notizie che portano sono cattive notizie, soprattutto nelle canzoni più esplicite. Nelle rime di Paky, Baby Gang, Simba La Rue e tanti altri non c’è morale, i testi non sono consolatori ma semplicemente fotografano una realtà che molti preferirebbero non vedere: delinquenza, ostentazione del lusso, turpiloquio, miraggi di bella vita e successo facile.
Rime piene di vita
Eppure basterebbe non cadere nella facile trappola che vorrebbe i “giovani con due g” vittime del “disagio con due g” e leggere quello che scrivono come fosse un hard boiled alla James Ellroy o Don Winslow senza trama, singole scene sceneggiate spesso con grande stile. Sì, perché molti di questi rapper e trapper sono degli scrittori, o a loro insaputa, o con la consapevolezza che a fare rap si guadagna di più che pubblicando un libro.
Trovo incoraggiante che molti ragazzini neanche maggiorenni, che magari arrivano da contesti famigliari sociali ed economici difficili, decidano di mettere in rima quello che vedono o (ma non è questo il punto) quello che vogliono che noi vediamo di loro. Scrivono sulle note del cellulare, sono un po’ dei Lanzichenecchi, ma nelle loro rime c’è molto più vita che nel novanta per cento dei pezzi pop che passano per radio. E c’è altrettanta vita che nella letteratura.
La vita di questi ragazzi è al centro del libro Morte di un trapper, dove un rapper quarantenne un po’ decaduto che passa le giornate fumando ganja e vendendo sneaker online si ritrova a vestire i panni del detective a pagamento per scoprire come è morto un ragazzino che è uguale a lui vent’anni fa, tatuaggio a X sul collo compreso.
Ho cercato di far mio il linguaggio dei giovani trapper facendo decine e decine di interviste per Rolling Stone ai protagonisti della scena italiana: l’obiettivo era quello di non risultare patetico per un loro fan della Gen Z e allo stesso tempo di essere comprensibile per un lettore medio, boomer come me o anche di più.
Obiettivo difficilissimo, ma faccio da cavia volentieri visto che non ho ancora letto in Italia dei romanzi che parlino di questo mondo. Che Gué, uno dei più importanti rapper italiani, abbia detto che la mia scrittura è cool lo considero un riconoscimento letterario.
Gang e baby gang
Come i veri rapper anche X, il detective improvvisato, non vuol far la morale o dare giudizi, anzi spesso fa delle cazzate anche lui, non è un personaggio positivo, tutt’altro. E questo credo che un po’ lo avvicini alla realtà. Una realtà fatta anche di delinquenza, micro criminalità, di gang e baby gang.
Basta farsi un giro a Milano le sere del fine settimana tra corso Como e il Bosco verticale, con i maranza che dalle periferie con la metro verde e lilla calano in centro, per capire cosa sta succedendo oggi, e perché criminalizzare un genere musicale solo perché un paio di trapper hanno avuto guai con la giustizia non sia certo la soluzione.
La realtà la racconta bene nel libro Mohamed, ma da sempre si fa chiamare Mimmo, a X mentre frigge delle patatine in un chiosco di porta Genova a quattro euro all’ora. «Sai quante patatine devo friggere per comprarmi le tue scarpe?» Mimmo come tutti i ragazzini conosce e desidera sneaker, le più care sono status symbol generazionale e quelle di X costano 400 euro, ovvero cento ore di patatine fritte: «Oppure ti punto questo coltello alla pancia ed evitiamo tutti ‘sti calcoli».
Ricchi e poveri
La forbice tra ricchi e poveri a Milano è sempre più alta, i ragazzini passano le giornate a scrollare i social vedendo gente pseudo famosa che fa la vida loca su uno yacht a Ibiza con orologi e vestiti costosi, e alla fine il risultato è questo: se non me lo posso permettere economicamente, me lo prendo lo stesso. Dicevamo della capacità del rap di dare cattive notizie? Ecco, una è questa.
E davvero non so come si faccia a uscire da questa situazione. Forse bisogna chiederlo a persone come don Burgio che da anni con l’associazione Kairos aiuta gli adolescenti in difficoltà intercettando i ragazzi dove abitano anche nei momenti informali. Educazione di strada e di cuore.
Quello che so è che non tutti i trapper che parlano di rapine, risse e furti poi li fanno davvero. Non tutti quelli che utilizzano un linguaggio violento sono violenti. Del resto il rap è nato 50 anni fa a New York proprio per tenere i ragazzi lontano dalla violenza di strada. Il messaggio era: mettete la violenza nelle vostre parole, nelle canzoni, così evitate di prendervi a revolverate e coltellate per strada. La violenza dei testi fa parte del rap fin dagli esordi.
Quello che so è che questa onda del rap e della trap è talmente grande che già in quarta elementare i ragazzini si chiamano tra loro “bro” e ascoltano Shiva e Rondo. E anche i sedicenni della Milano bene si vestono come i maranza di periferia, in un cortocircuito imitativo incredibile. La trap è ovunque nella città dove abito, è una sorta di iper oggetto.
Quello che so è che i valori dei trapper sono gli stessi dei loro genitori, di anni di Berlusconi, di sessismo e iper consumismo, e che ora tornano indietro ai padri e alle madri col filtro dell’auto-tune. I trapper semplicemente riflettono il mondo così com’è, non come vorrebbero che fosse.
Mi piacerebbe che libri e rap, scrittori e trapper si parlassero di più. Credo che a qualcosa porterebbe.
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