Quincy Jones è morto all’età di 91 anni, ma la sua fiamma non si è spenta, né si spegnerà presto. Ha attraversato quasi un secolo di storia americana, con il suo tocco e il suo fiuto randagio è stato uno dei protagonisti della musica popolare degli ultimi decenni. Era un uomo dalle cento anime, conteneva moltitudini.

Produttore discografico, arrangiatore, compositore, trombettista jazz, polistrumentista, direttore musicale, autore di colonne sonore: al nome di Quincy Jones è legata la vicenda di un uomo curioso e sfrontato che non si è fermato davanti alle barriere dei generi musicali. Ha sfidato le frontiere e ha cercato la via della contaminazione. Il jazz e il pop. Le infinite vie della musica. I bassifondi e le luci strabilianti.

Jones ha prodotto album di successo internazionale come Thriller di Michael Jackson, ancora oggi il disco più venduto nella storia della musica e uno dei più iconici di tutti i tempi. C’è la sua mano anche nella produzione di uno dei singoli più venduti di sempre, We Are the World. Composta a scopo di beneficenza per raccogliere fondi da devolvere alla popolazione che soffriva la carestia in Etiopia, scritta da Michael Jackson e Lionel Richie, la canzone fu incisa nel 1985 da un supergruppo di musicisti, un manipolo di fenomeni che comprendeva Bob Dylan, Kim Carnes, Bruce Springsteen, Tina Turner.

Nel suo libro di memorie e consigli pratici, 12 Notes: On Life and Creativity, Quincy Jones racconta che per arrivare a una canzone di successo come We Are the World bisogna incanalare le personali esperienze di vita in qualcosa di più grande e universale. Solo viaggiando, immergendosi in culture diverse, scoprendo lingue, cibi, musiche, Jones è arrivato a far suonare We Are the World in una maniera autentica.

Tutta la carriera di Quincy Jones è stata un’altalena di esperienze e incontri. È cresciuto in America, ha vissuto in Europa, è stato il primo afroamericano a diventare vicepresidente di un’etichetta, la Mercury nel 1961, e aveva poi fondato un’etichetta musicale tutta sua, la Qwest Records. Ha suonato nei club nascosti di Seattle e nei teatri di Parigi. Ha composto musica per la televisione, ha scritto colonne sonore per film, è stato produttore esecutivo di sitcom popolari come Willy, il principe di Bel-Air.

Anche se Quincy Jones aveva cominciato la sua ricerca musicale nel jazz, il suo destino non era quello di passare il resto della sua vita a suonare la tromba come Miles Davis. Aveva un talento diverso, da cacciatore e direttore d’orchestra. Jones era incuriosito da qualsiasi suono, voleva esplorare il pop e flirtare con sonorità dalla natura più differente e molteplice. Voleva graffiare rumori, estirpare frammenti di accordi, dare la direzione a fiati e corde.

Nel corso degli anni ha collaborato con un numero incredibile di artisti, una sfilza di musicisti meravigliosi come Count Basie, Frank Sinatra, Ella Fitzgerald, Dizzy Gillespie, Miles Davis, Diana Ross. Non si è mai seduto sugli allori né si è limitato a collaborare con i grossi nomi del passato: più di recente ha lavorato con Bono Vox e The Weeknd, ed è apparso in un video musicale di Travis Scott.

Ha collezionato ventotto Grammy, solo Beyoncé e Jay-Z ne hanno di più. Ma al di là di questa raccolta sparigliata di aneddoti, c’è qualcosa di più grande nella storia di Quincy Jones, qualcosa che viene oscurato dai suoi straordinari successi.

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Il tesoro nascosto

Se un gruppo di archeologi si mettesse a scavare tra i sotterranei del passaggio di Jones sulla terra scoverebbe incredibili tesori. Dalla città nascosta di Quincy Jones vengono fuori suoni, miscugli, canzoni, fotografie sbiadite.

Il suo primo album da bandleader, This Is How I Feel About Jazz (1957), è mezzo perduto in quella misteriosa città sotterranea, ma da là continua a ripetersi all’infinito dalle casse di uno stereo fantasma. Noi che ascoltiamo restiamo incantati. Jones arrangia le trombe, i sassofoni, e tutto suona soffice, soffuso, nostalgico come una malinconica Evening in Paris. This Is How I Feel About Jazz è un disco perfetto da ascoltare mentre si sbiadisce, e chissà se a Quincy Jones capitava ancora di ascoltarlo nella sua casa californiana durante gli ultimi giorni di vita.

«Non ho mai fatto musica per soldi o per fama, nemmeno Thriller», ha confidato Jones qualche anno fa parlando con un giornalista di Vulture. Vero o meno che fosse, Quincy Jones veniva dalla strada, il suo orecchio si era formato negli oscuri viali delle città americane.

Nato nel 1933 a Chicago, Jones era cresciuto a Seattle, la città dove ha cominciato a suonare la tromba da ragazzino, nei locali dove per vivere di musica e sfamarsi d’avvenire bisognava saper suonare di tutto, da Debussy a Charlie Parker. La classica e il jazz.

Nelle strade di Seattle il giovanissimo Quincy aveva incontrato e conosciuto Ray Charles. Da lui aveva imparato una lezione: eliminare ogni forma di restrizione e sfrenarsi, liberare il potere della musica nella sua forma più pura e gratificante. Da Ray Charles il giovane Quincy aveva imparato anche a drogarsi, ma subito aveva smesso. La sua vera dipendenza era la musica.

Vagare tra i suoni e i club di Seattle: è là che si è formato lo splendido eclettismo di Quincy Jones, la sua visionaria capacità di arrangiare, di esplorare suoni e passare dal bebop al gospel all’hip hop avanguardista.

«Alla fine degli anni Quaranta l’unico modo per tenersi aggiornati sulla musica popolare era vagare per le strade», ha raccontato a proposito di quei giovani giorni. Dalle strade Jones ha preso i suoni e li ha fatti suoi, ha affinato il suo orecchio, posseduto mondi distanti. In questa arte di arrangiare sta la sua grandezza.

Era convinto che quando la canzone è buona allora è tutto in discesa. «Se non hai una grande canzone, non importa cos'altro ci metti intorno», diceva.

Tra i suoi lavori più ambiziosi c’è l’album del 1989 Back on the Block, dove prova a riunire la musica nera americana, fonde jazz, R&B, hip hop – e il rap di Ice-T si mescola agli eterni nomi di Ella Fitzgerald, Miles Davis, Sara Vaughan, Barry White. L’ultimo album di Jones è stato Q Soul Bossa Nostra del 2010. Raccoglie il tributo di artisti diversi e somiglia quasi a un commiato che Jones registra per sé stesso: le voci di Amy Winehouse o John Legend salutano Quincy Jones, e fa niente chi si è commiatato per primo. In quell’arrangiare continuo c’era il talento di Quincy, che era venuto dalla strada per fondere e fendere.

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